Sabato a cena due Tartari mi hanno preparato il plov.
Sono venuti da me una collega, il di lei
ragazzo e un di lui amico. La collega è Russa di San Pietroburgo;
gli altri due sono Tartari nati nella baškira Ufa (città negli Urali
meridionali). Vivevano tutti e tre a San Pietroburgo, prima che la collega venisse a lavorare a Helsinki; il ragazzo e l’amico sono venuti a
trovarla per il weekend.
I Tartari appartengono al ceppo
turco-mongolo, come dichiarano le fisionomie dei miei ospiti
(generazioni di nomadi nella steppa, mandrie di cavalli, il terribile
splendore dell’Orda d’Oro) e la loro lingua (vicina al Turco) e sono
formalmente mussulmani (ma non molto praticanti: mi hanno chiesto: "come si può non bere
e non mangiare maiale?"). Il ragazzo della collega ha un nome che
viene da un personaggio di Dumas e mi racconta che il nome tartaro della
sorella suona come "acqua rossa", cioè "acqua mischiata con sangue"
(nella traduzione dal Tartaro al Russo all’Inglese e all’Italiano si
perde qualcosa), perchè è nata il 9 Gennaio, anniversario della domenica
di sangue del 9 Gennaio 1905 (giorno in cui l’esercito zarista aprì il
fuoco su una folla che portava una petizione a Nicola II, facendo una
strage). Anche l’altro Tartaro ha un nome francese, porta quello del
rivoluzionario che fu "ucciso da una prostituta" (come mi precisa con
orgoglio).
Il plov, secondo quanto ho
capito (i due Tartari non parlano bene l’Inglese, ma non mi va di farmi
sempre tradurre dalla collega) è un piatto originario dell’Asia centrale
ed è molto diffuso in Russia. La tradizione vuole che siano solo gli
uomini a prepararlo (e infatti la collega se n’è stata seduta a
sfogliare una mia rivista di interior design, sorseggiando un ottimo
rosso veneto).
Anch’io ho dato una mano e quindi ho potuto seguire da vicino la preparazione del plov
secondo la maniera uzbeka (che dicono essere la migliore): si soffrigge
nella pentola un battuto di carote e cipolle (i due Tartari avrebbero
voluto usare dell’olio di semi, ma io avevo solo quello d’oliva; gli
Uzbeki usano invece grasso di montone), con abbondanza di spicchi
d’aglio; poi si aggiunge la carne a tocchetti (ne hanno usata di maiale,
sebbene gli Uzbeki preferiscano usarne di montone) e l’uva passa; e
infine aggiungono il riso e le spezie (i due Tartari hanno usato solo
del curry; mi sarebbe piaciuto avere in casa dello zafferano).
Durante la preparazione (durata un
paio d’ore) ci siamo sostenuti con una salsiccia lucana da mezzo metro
aromatizzata al peperoncino dolce; abbiamo iniziato la cena con
un’insalata (fatta dalla collega) di lattuga, pomodori, cetrioli freschi
e aneto e poi siamo passati al plov.
Il plov era molto buono; i
miei ospiti mi hanno assicurato che con strumenti acconci e ingredienti
appropriati sarebbe venuto molto meglio e mi hanno invitato a provarlo a
San Pietroburgo (invito che mi toccherà onorare). Debbo confessare che,
essendoci scolata una bottiglia di J&B in tre (la collega ha bevuto
soltanto il rosso veneto: una bottiglia e mezzo!) tra la preparazione e
la cena, il mio palato non andava tanto per il sottile; dopo cena il
ragazzo della collega è andato a stendersi sul divano (i due amici si
erano fatti tre o quattro birre prima di venire da me) e io sono rimasto
con l’altro Tartaro a finirmi una mezza bottiglia di Beluga (ottima
vodka siberiana) che avevo in casa, più qualche bicchierino di
limoncello (fatto dai miei genitori), di ouzo (che mi ha portato un amico ateniese di passaggio per Helsinki) e di un liquore lucano al cioccolato e peperoncino.
Alla fine della serata ho chiamato un
taxi per i miei ospiti e li ho accompagnati a prenderlo, poi ho avuto
solo la forza di tornarmene a casa, salire in camera da letto, sfilarmi i
calzoni e crollare incosciente sul letto. Dormito sodo, al mattino mi
sono risvegliato freschissimo.
Per tutta la serata i due Tartari mi hanno insegnato le peggiori parolacce russe, ma non me ne ricordo nemmeno una.