Inja: un villaggio miserabile di qualche decina di izbe
annerite dalle stagioni. Uno scaracchio d'umanità perso tra i monti
verderame dell'Altaj, spalmato sulla valle scavata dal fiume Katun', un
pianoro battuto da venti implacabili buono solo a pascolarci i cavalli; un villaggio (il cui nome in altaico significa 'spalla') oltre il quale
un araldo del marxismo-leninismo decise che non valesse più la pena di
proseguire, perchè da lì fino alla Cina e alla Mongolia (lontane un paio di cento chilometri) non ci abitava più
nessuno e non c'erano dunque più proletari da redimere, né nulla da
saccheggiare.
Quel giorno percorremmo circa 350 km in direzione sud-est dalla città di Čemal (nostra base nell'Altaj) per andare a vedere la cascata
del torrente Tutugoj (prima che questo si getti nella Čuja, affluente
della Katun') e ne facemmo altrettanti per tornare indietro.
Lasciammo la fragrante e fertile valle
del fiume Čemal, con i suoi meli e i suoi albicocchi, le cui falde sono
popolate da salutari cedri e pini, e seguendo la statale M-52
abbandonammo le verdi rive della Katun' e ci addentrammo per valli di
latifoglie.
Prendemmo a salire fino ad arrivare in
un vasto altopiano, destinato a pascolo per le renne e presidiato da
Ondugaj, un campaccio rigagnoluto trapuntato di scure izbe, con qualche
edificio pubblico in muratura e capannoni in cemento, ormai in
rovina, di un grigio amaro e butterato. Come il cielo, che
diffondeva una luce granulosa ma perspicua, minata da pioggia ora lieve
ora intensa. Ci rifocillammo con dei čebureki ripieni di carne di montone (una sorta di ravioli fritti originari dell'Uzbekistan) e riprendemmo il cammino.
Passammo il valico del Čike Taman e ci riaffacciammo di nuovo sulla valle della Katun'.
Finora la strada aveva attraversato
villaggi, campi, boschi; avevamo superato trattori e ciclisti e babuški, che vendevano pomodori e
cetrioli sul ciglio dell'asfalto, ora, a perdita d'occhio, di fronte a
noi solo valli e giogaie brulle e ventose; rarissime izbe e rarissimi
alberi stonavano in queste lande
impetuose e impietose. Era tutto un frantumarsi di rocce verdi su ripidi
crinali (la valle della Katun' trabocca di rame, le sue stesse acque
sono limpidissime, ma verdi), un petroso franare, un sabbioso
sbriciolarsi di fianchi di collina, sotto un vento fottuto che asciugava qualsiasi pollare d'umidità.
Era chiaro perché l'araldo del marxismo-leninismo decise che non valesse più la pena di proseguire.
Le valli apparivano aride,
rinsecchite, misere di sterpaglia spuntata tra il sassame, eppure erano
rigate in tutti i sensi da numerosi corsi d'acqua di tutte le taglie e
di tutti i colori, che s'andavano a gettare nella Katun', dea
madre dell'Altaj, che unendosi alla Bija dà vita alla Ob', che
attraversa tutta la Siberia fino al mare glaciale).
Arrivammo a Inja. Da una parte della
strada un enorme masso erratico, dall'altra parte una
fermata d'autobus, eretta nel tipico cemento massiccio socialista, che si presentava come un incrocio tra una casamatta e un
vespasiano. Accanto alla pensilina, una serie di vecchie latte piene di
cetrioli e minute mele siberiane parevano aspettare l'autobus, ma
improvvisamente dalla casamatta-vespasiano vennero fuori giovani donne
esili, con zigomi forti e occhi a mandorla (e bambine paffute
sbocconcellanti al seguito) con l'intento di vendercele.