3 dicembre 2007

Classic Radio

Non sono mai stato un ascoltatore di radio, perché ho sempre considerato le radio tout court dei meri contenitori di scontatezze (musicali e non). Inoltre, il mio tempo libero é occupato essenzialmente dalla lettura (e, per quel che vale, dalla scrittura) e la concentrazione richiesta mal si concilia con il rumore di fondo di una radio accesa. Non capisco quelli che appena alzati accendono la radio e durante la giornata non possono stare senza la compagnia di una radio accesa.
L’eccezione é quando guido. Se avessi uno stereo che legge gli mp3 probabilmente non l’ascolterei, ma la radio offre piú varietá di un cd e non devo cambiarlo quando voglio sentire qualcos’altro (cosa che diminuisce la mia concentrazione al volante). Non che passi tanto tempo in macchina: un’ora al giorno o poco piú (il traffico a Hki é scarsino).
Insomma, alla guida, ascolto Classic Radio, come si puó intuire una radio finlandese di sola musica classica.
Quando vivevo ancora a Roma, ogni tanto provavo ad ascoltare la Filodiffusione, ma non ne cavavo grande diletto, soprattutto perché nella programmazione, a mio modesto avviso, si eccedeva nel dar spazio alla musica del XX secolo, fruibile piú da esperte orecchie di musicologi che da ineducate orecchie quali le mie. E inoltre perché non sopportavo il tono spocchioso e algido dei presentatori, che mi portava alla furia omicida quando affettavano con tutta l’arroganza possibile pronunce in lingue straniere, spiattellando le parole a noi comuni e ignoranti mortali sul naso e con mala grazia. Se c’é proprio una cosa che non tollero é la puerile vanitá di coloro che sfoggiano “cultura” per affermare implicitamente (e rozzamente) la loro pretesa superioritá (soprattutto quando “cultura”, nel senso di “paideia”, presupporrebbe anche una crescita morale).
Quello che piú amo di Classic Radio invece é proprio il tono dei presentatori (a parte l’ampio spazio che dedicano alla musica barocca). Introducono la musica con dolcezza e familiaritá, come una nonna che insegni a impastare alla nipotina; comunicano calore; e quando presentano un pezzo di musica dodecafonica, lo fanno sospirando, come se, raccontando una favola, fossero arrivati al punto in cui l’eroe sembra che non riesca piú a liberare la principessa prigionera della strega.
Ad essere sincero, la cosa non mi stupisce: per quel poco che conosco i piccoli Finni, li so generalmente alieni dall’affettazione di snobismo (a parte la gioventú che si dá un tono ascoltando pop di quarta categoria o heavy metal satanico e vestendo sciattamente H&M).

25 ottobre 2007

Una figura di merda

Giá il fatto di essere Italiano in Finlandia (con le aggravanti del pizzo e della scoppola) mi vale l'esser considerato dalle masse bionde un "geneticamente casanova". Qualche settimana fa ho ulteriormente aggravato la mia posizione.
Sopravvissuto ad un projektilounas, cioé una cena di progetto (che implicava il sopravvivere ad una visita al työmaa, cioé al cantiere; nello specifico il gigantesco sito del porto di Vuosaari); sopravvissuto al projektilounas, dicevo, e cioé ad una misera bistecca di toro con un po' di patate al forno, il tutto innaffiato con abbondante, ma scarso Cabernet-Sauvignon sudafricano, mi apprestavo a lasciare al suo alcoolico destino il gruppo di colleghi ancora molto assetati.
In realtá avrei avuto anche un'altra cena.
Flash back. Un amico di Valencia, giá ricercatore a Berkeley, lascia la California per seguire la bionda moglie nel suo capriccio di ritornare ai patrii lidi; non trovando la rubia manco uno straccio di lavoro in un anno e mezzo a Hki (forse essendo lei di troppe pretese professionali vantando una laureetta in Psicologia), i due decidono di tornare negli Stati Uniti. Fine flash back.
Il mio amico di Valencia e la sua rubia erano in quei giorni proprio a Hki per battezzare il figliolo di pochi mesi e proprio quella sera del projektilounas erano a cena con alcuni amici per presentarci ufficialmente il piccoletto (visto finora solo in foto). Tra gli amici ci dovevo essere anch'io, ma essendo impegnato sul fronte professionale a malincuore mandavo L. da sola, con l'accordo che li avrei raggiunti piú tardi per l'ammazzacaffé (ho preso una grappa; faceva schifo e rimpiansi la grappa di Brunello del Lasipalatsi).
Per farla corta: saluto in fretta i colleghi per raggiungere i miei amici e con un generoso slancio glottologico dico a tutti in Finlandese che ho un appuntamento con mia moglie: sará stata la stanchezza, sará stato il freddo, sará stato il vino: ma invece di dire che ho un appuntamento vaimon kanssa (con mia moglie), dico, candidamente sorridendo, naisen kanssa (con una donna). Cala il silenzio e tutti mi guardano con occhi sbarrati, pensando: questo é sposato da due settimane e non solo tradisce giá la moglie, ma lo sbatte pure ai quattro venti. Dopo qualche secondo una collega sillaba omanainen (la TUA donna). Nell'attesa della mia conferma il silenzio si fa piú fitto e gli occhi piú sbarrati; io, che non mi ero reso ancora conto della gaffe confermo, sempre candidamente sorridendo, omanaisen kanssa (con la MIA donna). Ripensandoci a posteriori: nessuno mi ha creduto.
Mentre un tassí mi portava via, mi resi conto della figura di merda.

15 ottobre 2007

Tristia di Osip Mandel'stam (1918)

 Я изучилъ науку разставанья
 Въ простоволосыхъ жалобахъ ночныхъ.
 Жуютъ волы, и длится ожиданье,
 Послeднiй часъ веселiй городскихъ,
 И чту обрядъ той пeтушиной ночи,
 Когда, поднявъ дорожной скорби грузъ,
 Глядeли въ даль заплаканныя очи,
 И женскiй плачъ мeшался съ пeньемъ музъ.

 Кто можетъ знать при словe -- разставанье,
 Какая намъ разлука предстоитъ,
 Что намъ сулитъ пeтушье восклицанье,
 Когда огонь въ Акрополе горитъ,
 И на зарe какой то новой жизни,
 Когда въ сeняхъ лeниво волъ жуетъ,
 Зачeмъ пeтухъ, глашатай новой жизни,
 На городской стeнe крылами бьетъ?

 И я люблю обыкновенье пряжи,
 Снуетъ челнокъ, веретено жужжитъ.
 Смотри, навстрeчу, словно пухъ лебяжiй,
 Уже босая Делiя летитъ.
 О, нашей жизни скудная основа,
 Куда какъ бeденъ радости языкъ!
 Все было встарь, все повторится снова,
 И сладокъ намъ лишь узнаванья мигъ.

 Да будетъ такъ: прозрачная фигурка
 На чистомъ блюдe глиняномъ лежитъ,
 Какъ бeличья распластанная шкурка,
 Склонясь надъ воскомъ, дeвушка глядитъ.
 Не намъ гадать о греческомъ Эребe,
 Для женщинъ воскъ, что для мужчины мeдь.
 Намъ только въ битвахъ выпадаетъ жребiй,
 А имъ дано гадая умереть.
  Ho imparato la scienza degli addii
  nel piangere notturno, a testa nuda.
  Ruminano i buoi, dura l’attesa,
  ultima ora di veglie cittadine,
  ed io rispetto il rito della notte dei galli
  quando, sollevato il fardello doloroso del viaggio,
  guardavano lontano occhi di pianto
  e il lamento delle donne accompagnava il canto delle muse.

  Chi può sapere che congedo attende
  nella parola addio,
  cosa ci predice il clamore dei galli
  quando il fuoco arde sull’acropoli
  e perché all’alba di una nuova vita,
  quando nel fieno rumina pigro il bue,
  il gallo araldo della nuova vita
  sulle mura della città sbatte le ali?

  E io amo i gesti quotidiani della tessitura:
  la spola ordisce, il fuso ronza,
  e già, peluria di cigno,
  la scalza Delia vola incontro!
  Meschino ordito della nostra vita,
  come è povera la lingua della gioia!
  Tutto è già stato, tutto si ripete,
  attimo dolce è solo il riconoscere.

  E così sia: una diafana figurina
  sul semplice piatto d’argilla,
  come una pelle appiattita di scoiattolo;
  china sopra la cera una ragazza guarda.
  Non sta a noi divinare il greco Erebo,
  per le donne la cera è come il rame per gli uomini.
  Noi solo in battaglia ci colpisce il fato,
  a loro è dato morire divinando.

10 ottobre 2007

Matrimonio romano - 15 Settembre 2007 - 1

Il matrimonio romano è quello che mi ha coinvolto maggiormente; non solo quanto ad emozioni (il "sì" pronunciato a Espoo, sebbene l'ufficiale civile paresse la cugina del Grande Puffo, sebbene l'attesa in anticamera durasse più della cerimonia, sebbene avessi litigato con il tassista che ci ha portato al Comune, sebbene la giornata fosse fredda e piovosa e dopo tre passi mi si fossero sporcati i mocassini, ebbene quel "sì" è stato un'irripetibile scossa di adrenalina mischiata al suono di un lucchetto che si chiude), ma soprattutto quanto a impegno programmatico, oltre che organizzativo.
Dopo il matrimonio finlandese e quello siberiano, è stato manifesto a tutti che L. ed io ci amiamo e che abbiamo deciso di sposarci e vivere insieme. Roma non era solo il terzo (e ultimo) atto di un triplice matrimonio: a Roma giocavo in casa e non volevo (non potevo) semplicemente ripetere con altre parole quelle che era stato già detto. La posta in gioco era diversa: si trattava di svelare il senso della nostra unione.
SENSO è la chiave di lettura del matrimonio romano. Non abbiamo fatto cose memorabili, non abbiamo cercato l'effetto speciale, anzi, abbiamo cercato ovunque la sobrietà: era il SENSO che stava dentro ad ogni azione e ad ogni parola ad essere la fonte di ricchezza e bellezza della giornata (campale, possiamo ben dirlo). Il SENSO è l'ingrediente magico che fa di una buona pietanza un capolavoro del gusto. E sotto i nostri occhi, la giornata è stata un capolavoro di SENSO e tutto si è svolto come doveva, come la dimostrazione di un teorema di geometria.
Il SENSO di questa giornata è personalissimo; è la nostra privata Weltanschauung.
La giornata si componeva di due parti, della cerimonia in chiesa e del banchetto.
Ho organizzato con la massima attenzione la cerimonia religiosa, dalle letture alle musiche (il culmine è stato nel canto al Vangelo, in cui è stato citato quel brano di Matteo che recita "dove due o tre sono riunuti nel mio nome, io sono in mezzo a loro"; oltre che assicurare alla nostra nuova famiglia la presenza fisica di Gesù, ci si riferisce alla crescita della famiglia, a quei "due o tre", cioè a quei due che possono diventare tre); ho insistito affinchè si introducesse nella liturgia un elemento non tradizionale, cioè l'incoronazione degli sposi. Tra l'altro ho scelto la mia semplice chiesa parrocchiale, e non una delle tante stupende chiese (che a Roma non mancano certo), perchè non cercavamo uno splendido sfondo ad un evento (non tollero che il matrimonio venga chiamato "evento"; a parte il fatto che spesso questa parola venga collegata all'aggettivo "mondano", cioè vano, effimero, patinato, "evento" non significa altro che "accidente"; donde si capisce che non tolleri che ci si riferisca al nostro matrimonio come ad un effimero accidente).
La stessa cura è stata messa nell'organizzazione del banchetto (che si è tenuto a Villa Tuscolana, a Frascati). Abbiamo arricchito il pranzo con dei discorsi tenuti in sette lingue differenti: Italiano, Russo, Finlandese, Inglese, Tedesco, Francese e Spagnolo, tenendo conto delle varie nazionalità presenti ai tavoli. Personalmente ho parlato in Italiano, Russo e Finlandese. Qui il compito è stato più facile, perchè non si doveva operare entro la forma fissa della liturgia.
Alla fine sono molto soddisfatto per come sia andata la giornata, sopratutto perchè alcuni ne hanno capito il SENSO che le abbiamo dato.

31 agosto 2007

Sabato 18 Agosto 2007 - KEMEROVO - MATRIMONIO

Il giorno più importante. Il primo dei due giorni di festeggiamento.
Non c’e cerimonia (il matrimonio civile è stato giá celebrato in Finlandia) e non c’è fretta: la festa inizierà verso le due del pomeriggio. L., mia madre, C ed io abbiamo il tempo di andare dal parrucchiere (per le donne una necessità, per me un capriccio, ma in effetti di una sistemata ne ho proprio bisogno). Tornati a casa, l’agitazione impera: il pullman per gli invitati passa all’una e tutti si stanno vestendo in fretta e furia; la macchina porterà L. e me al ristorante alle due e quindi abbiamo ancora un po’ di tempo. Sono arrivati il fotografo e il suo assistente. Nell’attesa delle due, il fotografo non sa più in che posa fotografarci, mentre il suo assistente riprende il tutto con zelo meccanico. Ho preparato con l’aiuto di L. un discorsetto in Russo; è talmente semplice che non perdo nemmeno tempo a fissarmelo nella memoria (e di questo mi pentirò più tardi).
Finalmente arrivano le due e partiamo per il ristorante.
L. tradisce nervosismo, io sono calmissimo. Decidiamo che io devo uscire e fingere di dimenticarmi di lei.
Appena arriviamo comincia il casino con gli invitati che applaudono e gridano e l’estrosa banda di musica tradizionale, gli Skomorohi (termine russo arcaico per designare i musici erranti; nel giro della musica tradizionale, banda piuttosto nota in Russia), che suona a tutto volume. Esco, fingo di dimenticarmi la giacca e fingo di dimenticarmi L. Sono tutte cose fatte e rifatte, ma il pathos e le risate degli invitati sono genuini (c’è un qualcosa di terapeutico e rituale in questo).
Gli invitati sono disposti su due file; in fondo, su di una piccola scalinata (che conduce all’ingresso del ristorante), ci sono mia madre, mio fratello, il padre e la madre di L. con il pane e il sale e la tamadà (figura di origine caucasica, animatrice della festa). Passiamo tra le due file di invitati che ci lanciano petali di rosa fino a raggiungere il gruppetto in cima alla scalinata. Inizia la tamadà con un discorsetto (meno male, in Russo molto comprensibile). Mordiamo la pagnotta (alcuni giorni dopo ho saputo che la tradizione dice che chi stacca il morso più grosso sarà il vero capo della famiglia). Beviamo dello champagne, gettiamo i bicchieri per terra e li calpestiamo. Arriva una ragazza vestita da angelo e ci consegna due candidi colombi, che prendiamo e lanciamo in aria dopo il suo discorsetto (strana sensazione di caldo, morbido e fragile: non avevo mai preso in mano un colombo; L. invece mostra dimestichezza; il cuore del colombo che tengo tra le mie mani rulla come un tamburo, spero che non mi muoia tra le mani; appena lo libero se ne vola via). L. è sinceramente rapita; io dopo un po’ rinuncio a sforzarmi di seguire tutti quei discorsi in Russo (tutti auguri di amore e felicità con variazioni sul tema) e mutuo espressone dalle espressioni degli invitati che scruto attentamente: gran sorriso e occhi spalancati. Prima di entrare nel ristorante calpestiamo un piatto.
Mentre gli invitati prendono posto, la tamadá ci trascina per le cucine e per altri locali fino ad arrivare dietro le quinte del palco che fa da fondale alla sala del banchetto. Noto una gigantografia con L. e me (un collage composto con foto delle nozze di Espoo) appesa come fondale del palco, su cui un chitarrista e una violinista intonano il tema di Love story (in molto popoli, nelle manifestazioni di gioia c’é sempre una vena di malinconia; sfido chiunque a trovarla ne La società dei magnaccioni). Facciamo un’entrata trionfale.
I tavoli sono disposti a U. Al tavolo trasversale sedono i nostri genitori (e noi).
É tutto un susseguirsi di danze e musiche: ballerini in costume tradizionale si esibiscono in danze tradizionali, altri in abiti anni ’50 in scatenati rock and roll; gli Skomorohi, anche loro in magnifici costumi tradizionali, non risparmiano gli strumenti. La tamadà conduce con la serena professionalità di un Pippo Baudo: dà mostra di conoscere tutti gli invitati ed assegna ad ognuno dei nomignoli. Nel frattempo si comincia a mangiare.
Gli ospiti mangiano. L. ed io no: dobbiamo ascoltare i discorsi della tamadà, guardare i balli; non so come sono riuscito almeno a inghiottire un paio di forchettate dal cocktail di scampi che mi sprigiona il suo profumo sotto il naso; sul tavolo c’è ogni ben di dio: blini (specie di crêpes suzettes) con caviale rosso, funghi e cipolle sott’aceto, melanzane con aglio e formaggio (un certo amico di Palermo apprezzerebbe), altre verdure, carni, vari tipi di pane; agli angoli del tavolo dei maialini arrosto aspettano di essere affettati.
Si snoda una teoria infinita di brindisi e discorsi con complementi di baci, abbracci, lacrime, voce di tamadà, musica degli Skomorohi. Non faccio in tempo a sedermi che subito bisogna rialzarsi.
L. ed io balliamo un valzer.
La tamadà scompare per un quarto d’ora: ne approfitto per mangiare qualcosa. Quando torna, entriamo nel vivo della festa: gli invitati ci danno i loro regali.
Ci sistemiamo sotto il palco e ogni famiglia, invitata dalla tamadà, tiene un discorsetto (nelle persone del marito e della moglie), ci consegna il regalo, beve una vodka e mangia un blin. Anche ora pianti, baci, abbracci. Gli invitati non sembrano finire mai. Questa serie "discorsetto regalo baci abbracci pianti vodka blin" ha un non so che di straniante, di ipnotico. Cominciano a dolermi le guance a forza di sorridere.
Tra l’altro ogni trenta secondi qualcuno del pubblico comincia a urlare a ripetizione gor’ko (che significa amaro) e devo baciare la sposa (non che la cosa mi dispiaccia, ma dopo la settecentocinquantatreesima volta inizia diventare pesante).
Torniamo finalmente al tavolo e faccio appena in tempo a mettermi in bocca uno di quei divini involtini di melanzana con formaggio e aglio, che la festa si trasferisce in giardino.
Dei cuochi stanno preparando degli šašlyki, dei quali sentiamo a malapena il profumino, visto che il fotografo e il suo fedele assistente ci rapiscono per una serie infinita di romantiche fotografie tra le betulle. Quando finalmente nemmeno loro resistono più a quell’aroma di maiale alla brace che vaga per il giardino, ci concedono una tregua.
Tregua che dura appena il tempo di mangiarmi uno šašlyk che mi dicono che la sposa è scomparsa. Nella tradizione russa lo sposo deve comprare la sposa la mattina, prima di andare al comune, ma noi in comune siamo già stati due mesi prima. Per comprare la sposa, lo sposo deve superare una serie infinita di giochi, ma con me sono stati magnanimi e devo farne uno solo: mi mettono sotto il naso una mela in cui sono stati infilati una trentina di fiammiferi. Per ogni aggettivo che pronuncio (in Russo) in lode di L. ho diritto a sfilare un fiammifero. All’inizio è facile: bella, brava, intelligente, dolce, etc; superato il ventesimo nemmeno i Russi sanno più che inventarsi per aiutarmi. Le altre due prove sono passeggiate in confronto: devo cantare una canzone in Russo e me la cavo con Kalinka (col senno di poi avrei intonato Oci ciornie) e poi una in Italiano e me la cavo con O sole mio (meno male che gli Italiani e gli Skomorohi mi hanno aiutato laddove la voce non arrivava).
Mi riconsegnano L.
Torniamo in sala. Trovo nel piatto il maialino arrosto (ripieno di vari tipi di carni). A fianco un piatto con del pesce (che non avró tempo nemmeno di assaggiare). Riesco a mandar giú due bocconi di maialino che la tamadá ci chiama. Fa il solito discorsetto e si presentano il fratello di L. e il marito di una sua cugina vestiti da neonati: fanno il giro dei tavoli raccogliendo soldi dentro delle calze (tutti i giochi sono, nella tradizione, finalizzati a raccogliere soldi per gli sposi; anche la torta si “vende” e gli invitati devono “comprarla”; oppure devono “comprare” le posate per mangiare).
Dopo altri giochi, buttano paglia e coriandoli per terra e L. deve dimostrare di essere una brava donna di casa pulendo il pavimento; mischiati a paglia e coriandoli ci sono dei rubli che io devo raccogliere per dimostrare di saper portare i soldi casa; gli invitati si divertono a disturbarci e a mettere dei rubli nei posti piú strani.
Viene il momento del discorso degli sposi. Comincia L.: racconta, tra le altre cose, le prove tremende che ho dovuto superare nell’Agosto 2005 per avere la sua mano: ho dovuto vincere la terra, l’acqua e l’aria. La terra: sono disceso a -420m in una miniera di carbone; l’acqua: ho nuotato nel gelido Mrassù, un fiume che scorre nella tajga; il cielo: mi sono arrampicato come una scimmietta sui (traballanti) ponteggi della casa in cui siamo ospiti, ma che due anni fa era in costruzione. Aggiungo in extremis il fuoco (la prova più facile): ho dovuto (con piacere) mangiare svariati chili di šašlyki (cotti al fuoco).
Ora tocca a me parlare. Mi accorgo di non ricordarmi una parola del mio discorso. Ma come? Stamattina me lo ricordavo. Non ho il tempo per mandarmi a quel paese e comincio a parlare. Ho ripetuto senza intonazione alcuna brani del discorso che mi ritornavano in bocca come conati di vomito. Ho detto delle cose così senza senso che non so dire se ho fatto pietà o schifo e nemmeno mi becco un applauso di cortesia.
Comincia la musica e si comincia a ballare (ne approfitto per dedicarmi al maialino e agli involtini di melanzane per dimenticare la figuraccia). Balliamo anche noi.
La tamadá ci invita fuori e troviamo due cuori in fiamme, l’uno nell’altro. Fatte le foto di rito, ci trasferiamo tutti nel giardino dietro il ristorante, dove é preparato uno spettacolo pirotecnico. I fuochi d’artificio sono bellissimi.
Torniamo dentro; posso finalmente mangiare indisturbato. La festa sta per terminare. Gli invitati sono stanchi, trovo il fotografo e il suo inseparabile assistente esausti e stravaccati su due poltrone. L’unico arzillo é l'autista (che mi dicono abbia mangiato e bevuto per tutta la giornata senza curarsi di niente e nessuno), che ci riporta a casa.

26 agosto 2007

Giovedí 16 Agosto 2007 - MOSCA

Arrivo a Mosca, aeroporto di Šeremet’evo, a mezzogiorno e zero cinque, in perfetto orario. Uscito dall’aereo, mi fiondo al controllo passaporti, che supero prima che si formi la solita fila; i bagagli escono subito, il mio tra i primi.
A prendermi trovo l'autista Jurij; con Jurij c’intendiamo subito e subito scaldo il mio Russo; nell’attesa di C&C (che arriveranno tra due ore e mezza) ci scoliamo qualche birra e programmiamo la giornata.
La giornata è molto calda e il sole picchia.
Alle due e mezza raccolgo C&C dall’uscita passeggeri e li porto alla monovolume e subito partiamo per Mosca.
Sono eccitatissimo: di Mosca ho sentito parlare come di un’idra caotica e tumorale, come di un pazzo bestiario di tutte le possibili diseguaglianze; divoro con gli occhi tutto quello che vedo: le strade a sei o sette corsie intasatissime, la folla inesauribile che traghetta sopra i numerosi ponti pedonali, le tipiche torri residenziali socialiste... Abituato a Helsinki, il cui tessuto urbano è sfilacciato e rado (fatta eccezione per i quarteri di Eira e Töölö), questi monumentali assi viarii arginati da alte muraglie di edifici mi danno finalmente la sensazione di trovarmi in una CITTA’.
A metà strada tra l’aeroporto e il centro, ci aspetta VN, il capo di Jurij, che ci ospita in una berlina, più agevole per il traffico moscovita della monovolume, dove lasciamo armi e bagagli, sotto la custodia di Jurij.
VN ci porta a mangiare in un ottimo ristorante giapponese (la cucina giapponese impazza in Russia). Durante il pranzo parlo un po’ con VN, la sua parlantina sciolta richiede la mia massima attenzione: VN ha l’aria di un tipo sveglio e io voglio che anche lui mi consideri in gamba.
VN è Siberiano, di Tjumen’. Lo dice con orgoglio; si è trasferito a Mosca solo per il biznes. E il biznes gli va bene.
Dopo pranzo VN se ne ritorna al suo biznes e ci affida di nuovo a Jurij. Abbiamo giusto il tempo per fare un salto alla Piazza Rossa. La Piazza Rossa sembra un richiamo per turisti devoti praticanti di luoghi comuni e pii lettori di guide, la vera Mosca non è certo qui. Ripenso al breve tragitto a piedi di poco prima: dalla macchina al ristorante e viceversa in una strada qualsiasi di Mosca: i miei ormoni impazzivano e non solo a causa dell'infinita bellezza delle donne russe: esplodevano in me ricordi dalle letture più disparate, da Dostoevskij a Solženicyn, da Puškin a Nabokov, da Lermontov a Platonov, immagini dai classici del cinema sovietico degli anni ’60-‘80, mi fremeva dentro un’idea irreale di Russia, una cristallizzazione di miraggi d’amore, di memorie di viaggio, di odori, sapori, forme (di donna, d’edifici), d’attimi rubati alla meccanica del vivere.
Facciamo una brevissima visita alla cattedrale del Cristo Salvatore: la cattedrale venne demolita negli anni ’30 per edificare al suo posto un gigantesco centro congressi, di cui furono gettate solo le fondazioni; dopo la guerra dall’area di ricavò una piscina scoperta (infatti nella mia guida di Mosca del ’64 della chiesa non si fa menzione); la cattedrale venne ricostruita poi da El’cyn e in questa cattedrale è stato celebrato il suo funerale.
Si è fatto tardi e dobbiamo tornare all’aeroporto di Šeremet’evo a prendere i miei che arrivano da Roma. Il traffico del pomeriggio è vasto, ma in qualche modo riusciamo a fare in tempo. Il buon Jurij ci porta al terminal nazionale (che dista venti minuti buoni di macchina da quello internazionale); il check in per il volo per Kemerovo è già aperto e facciamo tutte le file (non mi ricordo più quante) fino ad arrivare al ponte d’imbarco. L’anno scorso il ponte d’imbarco era nell’edificio principale e quest’anno si trova in un edificio secondario collegato da un passaggio vetrato. Qui non c’è aria condizionata e il caldo è insopportabile. Una volta imbarcati la situazione non migliora.
Per qualche oscura ragione C&C e io siamo seduti davanti, mentre gli Italiani dietro. Vicino a me siede un ingegnere russo sui quarant’anni, è emigrato in Canada e torna a trovare i suoi per qualche giorno; ha modi molto occidentali. Dopo cena, m’immergo nell’Autunno del medioevo di Huizinga, cercando nella lettura di stemperare l’eccitazione di questa lunga giornata e di trovare il sonno.

25 agosto 2007

Ultima notte in Siberia

Casa dei genitori di L.
Ultima breve notte. Sveglia alle cinque. La valigia é pronta. Corpo e spirito pacificati dopo una robusta sauna.
Per qualche oscura ragione le tende non erano chiuse del tutto e penetrava liberamente una lama di luce. Non so se fosse artificiale o naturale: era di un bianco latteo, mistico; come un’amorevole benedizione che provenisse da altezze irraggiungibili; come una lievissima carezza che però contenesse forza e sicurezza non umane.
La luce si adagiava in punta di pennello sul viso di L. dormiente, trasfigurandolo, come la luce spirituale delle icone, ma come la mano ispirata del divino Rublëv non saprebbe mai fare: un sottile alone spirava dalla guancia, dal sorriso, dalla palpebra di L., al ritmo regolare del suo respiro, e vaporava per tutta la stanza.
Nell’attesa del sonno meditavo confusamente sulle promesse di matrimonio pronunciate frettolosamente di fronte al prete di Hki. Quattro lucchetti a protezione del tesoro che mi dormiva tra le braccia. E la Luce ne era la chiave.

7 agosto 2007

La tentazione gnostica - 1

Negli ultimi anni ho sviluppato un interesse per alcune discipline che potremmo chiamare eterodosse, come la filosofia ermetica e la gnosi.
Ho ricevuto una formazione scientifica sensu lato e l’applicazione della meccanica newtoniana é il mio pane quotidiano. 
Nell’elaborazione della mia tesi di laurea, il mio relatore mi fece studiare il pentagono, la spirale costruita sulla sezione aurea e le loro reciproche relazioni; sotto la sua guida scoprii la serie di Fibonacci e i numeri di Fidia. Mi folgoró sulla via di Damasco l’idea che le perfette proporzioni di queste figure geometriche fossero indizio di maggiore e piú alta Perfezione, che fossero prova di un Ordine nell’universo. Che questo Ordine fosse intellegibile, ma oscuro; che dovesse essere ricercato e alla fine venisse rivelato. Che le sue Leggi fossero maggiori e piú alte delle leggi della fisica e della chimica insegnate all’universitá.
Le ricerche del mio relatore hanno un indirizzo prettamente estetico-architettonico, nel senso che sono finalizzate alla figurazione dello spazio. In un primo momento rimasi legato all’architettura ed elaborai una modesta teoria estetica dell’architettura di forte impostazione magico-neoplatonica (intendendo per magia un demiurgico operare sulla materia). 
Lessi Platone, l’Alberti, Ficino, Cusano, Pico, l’Hypnoerotomachia Polyphili.
Imparai che per secoli i saperi eterodossi avevano camminato parallelamente a quelli ortodossi e spesso si erano mescolati inestricabilmente: Keplero fu astronomo e astrologo, Newton fu fisico e alchimista. 
Scoprii l’alchimia. Di cui mi attrasse subito l’interpretazione junghiana. Jung vide nel pensiero ermetico la proiezione dell’inconscio collettivo umano e, attraverso uno studio comparato sui sogni e sui mandala, investigó l’archetipo del Sé.
Nella prima parte di Psicologia e alchimia Jung descrive lucidamente il suicidio spirituale dell’Occidente nel materialismo. Le sue parole mi colpirono profondamente; soprattutto non mi aspettavo di trovare Jung difendere l’anima e sostenere che essa fosse naturaliter christiana. 
Alchimia é una parola araba che significa (se non ricordo male) "la terra nera", che per sineddoche designa l’Egitto. E infatti tra i fondatori mitici dell’alchimia si contano Ermete Trismegisto (versione ellenistica del dio egizio Toth) e Maria l’Ebrea (sorella di Mosé e Aronne).
L’achimia é una disciplina oscura e segreta e per questa ragione non é compatibile con la sistematizzazione delle scienze moderne. Lo stesso fine dell’alchimia é occulto: assai rozzamente potremmo dire che il suo fine sia quello di operare sulla materia per liberarne lo Spirito che essa tiene imprigionato (nell’alchimia cinese il fine dichiarato é spesso quello di portare a perfezione fisica, intellettuale e morale l’alchimista); non esiste nemmeno un modo univoco per nominare il risultato di queste operazioni: pietra dei filosofi (filosofale), uovo dei filosofi, nostro oro, nostro argento, nostra acqua, ecc. (in alcuni autori accade che il nome della materia di partenza e quello del "prodotto" finale coincidano). 
Necessariamente la tradizione alchemica si fonda su un sapere celato, la cui fuizione non puó che giungere al termine di una lunga ricerca, durante la quale l’alchimista opera sulla materia e su se stesso fino a liberare dal gravame morale (della materia) e la pietra e se stesso.
L’idea di un sapere occulto e ancestrale, a petto del quale le scienze ortodosse fossero solo eidola theatri baconiani, mi portó alla gnosi. Lessi Guenon ed Evola.

17 luglio 2007

ПЕРВЫЕ СВИДАНИЯ (Primi incontri) di Arsenij Tarkovskij (1962)

Mi sto appassiondo ai film di Andrej Tarkovskij: recentemente ho visto "Soljaris" (1972) e "Andrej Rublëv" (1966). Ieri ho visto "Zerkalo" ("Lo specchio"; 1974). Riporto una poesia recitata da una voce fuori campo (quella del suo stesso autore, il padre del regista) durante il fim.

Свиданий наших каждое мгновенье
Мы праздновали, как богоявленье,
Одни на целом свете. Ты была
Смелей и легче птичьего крыла,
По лестнице, как головокруженье,
Через ступень сбегала и вела
Сквозь влажную сирень в свои владенья
С той стороны зеркального стекла.

Когда настала ночь, была мне милость
Дарована, алтарные врата
Отворены, и в темноте светилась
И медленно клонилась нагота,
И, просыпаясь: "Будь благословенна!" -
Я говорил и знал, что дерзновенно
Мое благословенье: ты спала,
И тронуть веки синевой вселенной
К тебе сирень тянулась со стола,
И синевою тронутые веки
Спокойны были, и рука тепла.

А в хрустале пульсировали реки,
Дымились горы, брезжили моря,
И ты держала сферу на ладони
Хрустальную, и ты спала на троне,
И - боже правый! - ты была моя.
Ты пробудилась и преобразила
Вседневный человеческий словарь,
И речь по горло полнозвучной силой
Наполнилась, и слово ты раскрыло
Свой новый смысл и означало царь.

На свете все преобразилось, даже
Простые вещи - таз, кувшин,- когда
Стояла между нами, как на страже,
Слоистая и твердая вода.

Нас повело неведомо куда.
Пред нами расступались, как миражи,
Построенные чудом города,
Сама ложилась мята нам под ноги,
И птицам с нами было по дороге,
И рыбы подымались по реке,
И небо развернулось пред глазами...
Когда судьба по следу шла за нами,
Как сумасшедший с бритвою в руке.

Ogni istante dei nostri incontri
lo festeggiavamo come un’epifania,
soli a questo mondo. Tu eri
più ardita e lieve di un’ala di uccello,
scendevi come una vertigine
saltando gli scalini, e mi conducevi
oltre l’umido lillà nei tuoi possedimenti
al di là dello specchio.
Quando giunse la notte mi fu fatta
la grazia, le porte dell’iconostasi
furono aperte, e nell’oscurità in cui luceva
e lenta si chinava la nudità
nel destarmi: “Tu sia benedetta”,
dissi, conscio di quanto irriverente fosse
la mia benedizione: tu dormivi,
e il lillà si tendeva dal tavolo
a sfiorarti con l’azzurro della galassia le palpebre,
e sfiorate dall’azzurro le palpebre
stavano quiete, e la mano era calda.

Nel cristallo pulsavano i fiumi,
fumigavano i monti, rilucevano i mari,
mentre assopita sul trono
tenevi in mano la sfera di cristallo,
e – Dio mio! – tu eri mia.

Ti destasti e cangiasti
il vocabolario quotidiano degli umani,
e i discorsi s’empirono veramente
di senso, e la parola tu svelò
il proprio nuovo significato: zar.

Alla luce tutto si trasfigurò, perfino
gli oggetti più semplici – il catino, la brocca – quando,
come a guardia, stava tra noi
l’acqua ghiacciata, a strati.

Fummo condotti chissà dove.
Si aprivano al nostro sguardo, come miraggi,
città sorte per incantesimo,
la menta si stendeva da sé sotto i piedi,
e gli uccelli c’erano compagni di strada,
e i pesci risalivano il fiume,
e il cielo si schiudeva al nostro sguardo…

Quando il destino ci seguiva passo a passo,
come un pazzo con il rasoio in mano.

13 luglio 2007

Appunti da un giorno di nozze - 2

Lasciamo il Maistraatti di Espoo e cerchiamo un taxi per farci portare a Helsinki; ci facciamo lasciare al Senaatintori.
Il tempo di qualche foto e comincia a piovere e si alza il vento.
Ci rifugiamo al Kappeli per scaldarci con un cappuccio.
Suscitiamo l’interesse di un gruppo di turisti polacchi, che non ci staccano gli occhi di dosso (forse perché non riescono a capire se parliamo tra di noi in Russo, in Inglese o in Italiano; forse perchè in contemplazione di una bellissima giovane donna e del suo elegante cavaliere).
Usciamo quando smette di piovere e riprendiamo il cammino: voglio portare i nostri amici al Töölönlahti, baia che pare un lago, tanto l’accesso al mare aperto è stato manomesso (bello passeggiarci l’inverno quando ghiaccia), presso cui sorge la Finlandiatalo; ma la pioggia ci sorprende ancora dopo aver superato la stazione ferroviaria e ci rifugiamo nell’edificio dello Helsingin Sanomat (il maggiore quotidiano finlandese). Mentre le ragazze si godono una mostra di pittura nella hall, A si gode la mia spiegazione del comportamento meccanico della facciata in vetro e acciaio.
Ormai è tempo di andare al Lasipalatsi, dove ci aspetta un tavolo, e mentre la pioggia tira un attimo il respiro lo raggiungiamo costeggiando il Kiasma.
Cominciamo la cena con un’ottima zuppa di salmone accompagnata dal pane di segale e dal Fiano d’Avellino. La zuppa, ricca di salmone e patate, non è molto cremosa, né molto dolce, a differenza della zuppa del Seahorse, cosa che la fa apparire meno artefatta, meno gonfiata, ti dà l’impressione di schiettezza, essenzialità.
Il piatto principale è lombo di renna con salsa di lampone; per questo piatto ho scelto un Raimat Gran Reserva del 1995. Non sono un appassionato di salse di bacche, ma questa è molto leggera e non copre il sapore della renna.
Per dolce ho preso dei pezzetti di formaggio fresco a pasta molle affogati in una crema calda alla cannella (molto usata in Finlandia) e serviti con delle bacche di camemoro (finlandese: lakka o hilla; bacca arancione pallido che cresce solo nelle paludi del Nord e dal sapore acido); l’ho trovata una combinazione estremamente raffinata: caldo e dolce sapientemente mescolati con freddo e acido. L. ha scelto una creme brulee di caramello con fragole marinate in un liquore alle fragole (non ricordo che cosa abbiano preso gli altri).
Un caffè, un bicchierino di grappa di Brunello, un’ultima corsa in taxi e siamo a casa.

E’ notte (ma a questa latitudine e in questa stagione non è buio): è il momento di un romantico valzer: per la festa che si terrà a Kemerovo L. e io dovremo ballare un valzer e vogliamo dare un saggio ai nostri amici.
Adesso si è fatto davvero tardi! I nostri amici rimangono garbatamente in soggiorno a vedere Gardemariny, vperëd!, una miniserie russa del 1987 in quattro episodi ambientata a metà Settecento (la storia ha l’inverosimiglianza di una fiaba, con attori principali giovani e belli e bravissimi secondi ruoli), mentre io e L. ce ne saliamo in camera.

8 luglio 2007

Appunti da un giorno di nozze - 1

Ci siamo sposati di Mercoledì 27 Giugno 2007.
Giornata grigietta, piovigginosa, freddina.
Arrivo con A verso le una e mezza di pomeriggio al Maistraatti di Espoo, a Tapiola. Corro da Stockmann a prendere il bouquet di rose bianche e rosa (la commessa parla un ottimo italiano con un forte accento Milanese). Verso le due e mezza arriva L. con un completino color madreperla (sotto veste una canottina color avorio che la fascia morbidamente); la accompagnano K (abitino giallo opaco) e S (abitino di seta cinese rossa e bruna decorata con fiori cucito da lei stessa).
Ci tenevo a vedere la mia sposa il più tardi possibile, cercando un’emozione cerimoniale laddove non ce n’erano. Non sono state nozze tradizionali queste (tra l'altro io vestivo di nero sebbene fosse di giorno) e necessariamente sono le meno importanti delle tre.
Verso le tre saliamo al Maistratti, dopo un po’ di foto fatte per scacciare il tarlo di un’attesa senza molto pathos. Ci fanno accomodare in un salottino; mi pare la sala d’attesa di un dentista, mancano solo le riviste stravecchie. Con qualche minuto di anticipo ci fanno accedere alla saletta dove un pubblico ufficiale donna ci dichiarerà marito e moglie.
Il tempo di sistemare la videocamera e il pubblico ufficiale inizia a leggere la formula in Inglese. Ha un tono di pomposa benevolenza e un fortissimo accento finlandese; sento che tratteniamo le risa. Mentre la donna si rivolge direttamente a me, mi viene il dubbio che le risa che trattengo siano nervose e non per il suo accento. Quando mi chiede se voglio prendere in moglie L., mi chiedo a mia volta se devo rispondere solo YES o più filologicamente YES, I WILL. Non ne ho la più pallida idea, ma YES mi pare un po’ pochino; inoltre la Y semiconsonantica ho paura che non stimoli l’uscita della voce e io voglio essere sentito: decido per YES, I WILL. La mia scelta condizionerà anche la risposta di L.
La donna ci invita a scambiarci gli anelli. Quello di L. non entra e non mi lascio sfuggire l’occasione di passare alla storia con una battuta in Russo: ty ela carbonara! (ne hai mangiata di carbonara!). Scoppiamo in una risata catartica.
L. mi mette l’anello al dito (lei, ortodossa, lo porta all’anulare destro e io, cattolico, all’anulare sinistro) e la cerimonia termina con un casto bacio sulle labbra. Il pubblico ufficiale mi darà un certificato di matrimonio che analizzerò con scrupolo burocratico, L. lancerà il bouquet (che S prenderà) e la finiremo lì: ci è voluto più tempo a scriverlo che a viverlo.

26 giugno 2007

Matrimonio a Espoo

Domani matrimonio civile presso il Maistraatti (il Comune) di Espoo alle 15:15.
Piove da stanotte ed é prevista pioggia per tutto il resto della settimana. Temperatura intorno ai 12-13 gradi.
Nel pomeriggio arriveranno da Berlino gli amici di L.: K, A e S. Per qualche giorno saró in minoranza (quattro Russi contro un Italiano!) e mi toccherá l’onore (l’onere) di parlare la lingua di Nabokov.
Venerdí daremo un piccolo party a casa. Saremo circa 20-25 persone. Secondo le tradizioni Italiane e Russe ci sará da mangiare e da bere in quantitá industriali (soprattutto da bere, nel rispetto dei costumi finlandesi). Saremo Italiani, Russi e Finlandesi; ci saranno rappresentanze da Spagna, Austria e Grecia (non mancherá l’Ateniese, con cui andavo a caccia di guai insieme al Cassinese ai gloriosi tempi di Oulu).

11 giugno 2007

Mattina in spiaggia - Mar Tirreno - Infanzia

Camminando all’ombra delle cabine sento sotto i piedi sabbia fresca e umida. Amalgamate alla brezza satura di iodio e al risaccar delle onde, scambio per arie di Bach le canzonette che la radio del bar diffonde a basso volume, prima del chiasso. Le mie dita toccano con piacere legno roso dalla salsedine, la vernice scrostata; l'incuria delle cose. Lo zoccolare del bagnino sui quadrotti di cemento é sfacciato; mi sorprende la sua sicurezza nel camminare sulla sabbia.
Ma presto odore di crema solare. Giá m’inebria il ruggito del sole. Nelle borse di plastica lucida si nascondono tesori di pizzette avvolte in carta unta e bottiglie d’acqua ancora fredda. Cominciano le cerimonie tra vicini d’ombrellone. Si leggono giornali nell’attesa di cimentarsi con le parole crociate. Leggo un romanzo di Verne nell’attesa del bagno. Odorare il libro mi aiuta a sognare avventure.

10 giugno 2007

Il mio addio al celibato finlandese

Appuntamento alle 20:15 a casa di A&S a Otaniemi, a due passi dall'univerità aaltiana.
Si comincia con una cena nel giardinetto condiminiale. Ci sono anche un'amica austriaca e un ragazzo di Pisa. Poco dopo arriva anche C, filosofa della provincia di Forlì (sfortunatamente non vanta origini predappiesi). Mangiamo pasta (fredda) e makkara (tiepidi). Ricevo complimenti per come adagio la senape sul makkara.
La cena all'aperto è animata da una caccia al tesoro. A&S hanno composto undici incantevoli distici rimati sulla vita di coppia (in lingua italiana, ma con forti escursioni nel dialetto umbro). Ad ogni distico è abbinato un oggetto nascosto nel giardinetto.
Tra gli oggetti che ho dissotterrato durante la caccia al tesoro ci sono: un perizoma di gomma mangiabile, un paio di manette con pellicciotto rosa, un paio di occhialoni rosa, una cravatta con un paio di labbroni al posto del nodo, una bandana rosa. Oggetti che ho immediatamente indossato man mano che li trovavo (a parte il perizoma).
Dopo cena siamo andati a ballare al Baker's. Io ero conciato come sopra. Non pago di attirare l'attenzione, ho passato la maggior parte del tempo a sbracciarmi sul cubo (sudando come in sauna: a fine serata ero ridotto in uno stato pietoso, ma con ancora indosso gli irrinunciabili accessori; mi sentivo come un costume di carnevale il Mercoledì delle Ceneri). Al Baker's abbiamo incontrato i ragazzi di C e dell'amica austriaca.
Nonostante le mie amiche A&S si fossero riproposte di farmi bere "a bestia" (toscanismo), sono state loro a sbronzarsi (il giorno dopo ho potuto tranquillamente falciare l'erba del giardino e pulire casa per l'arrivo imminente di L).

16 maggio 2007

Italia

"Finchè esisteranno frammenti di bellezza, qualcosa si potrá ancora capire del mondo. Via via che spariscono, la mente perde capacitá di afferrare e dominare. Questo grande rottame naufrago col vecchio nome di Italia é ancora, per la sua bellezza residua, un non pallido aiuto alla pensabilitá del mondo."
(Guido Ceronetti, Un viaggio in Italia, 8, Milano, 2004, Einaudi)

2 maggio 2007

Ieri un po' d'influenza mi ha tenuto a casa: me ne sono stato a letto bevendo the ayurveda e sul tardi mi sono fatto una bella sauna che mi ha restituito ai vivi ed una pinta di latte caldo con miele dell'Altaj e cognac armeno. Ieri sera ero quasi tentato di andarmene a lavorare, visto che mi sentivo meglio, ma, in vista del prossimo weekend a Berlino, ho preferito rimanermene un'altra giornata a casa.
Scelta azzeccata. A dispetto delle tepide illusioni della settimana scorsa, oggi freddo e vento scandiscono la giornata, alternando grandine, neve e pioggia.
Me ne sto tutto solo nel mio kimono di seta vietnamita a guardare il parco dietro casa, ora le raffiche di vento schiaffeggiano furiosamente i rami dei pini, ora la neve cade verticalmente e senza grazia tra le betulle, ora una brezza delicata accompagna il respiro delle cose fino alle vibrazioni delle sfere celesti. Una luce modesta e insapore viene a morire sul parquet del mio salone dando riflessi giallastri.

30 marzo 2007

Una coppi di Romani - 2

Allora ero in procinto di lasciare il mio appartamento in affitto a Kallio e lui insisteva a visitare l’appartamento (si preoccupava che il balcone desse a Sud per poterci installare la parabola). E io, ingenuamente, non capivo perché volessero trasferirsi da un appartamento centralissimo (tra Kamppi e Punavuori) con tre stanze in uno a Kallio con due.
L’appartamento se lo stava cercando per viverci da solo.
Venne fuori che il tentativo di sfondare nel mercato finlandese non andava come previsto.
Man mano misi insieme i pezzi del puzzle, soprattutto grazie alle parole di lui (che si sfogava con me mentre facevamo la fila al bancone).
Lui e la moglie stavano insieme da circa quindici anni, e da un anno si erano sposati (poco prima di trasferirsi a Helsinki). Ma da quando si erano trasferiti a Helsinki lui voleva "cambiare" (lei usó questo termine per dire che lui stava cercando un’altra donna o, piú probabilmente, molte avventure). Me lo disse con calma, come se il marito avesse deciso di cambiare macchina (lei parlava sempre con calma; piú che calma era un misto di lucida rassegnazione e predacitá sospesa).
Non osai giudicarli.
Lui mi parve vincitore, tutto proiettato nel futuro (meditava di tornarsene a Roma se presto le cose non fossero andate meglio; "si vive anche di professione", mi ripeteva; cercava chiaramente avventure con le biondine); lei, sebbene piú maligna, piú raffinata, mi parve sconfitta, tutta rattrappita nel passato (mi raccontava di rosticcerie e pasticcerie romane; erano quelli gli unici rimpianti che le uscissero di bocca, ma era chiaro che ne aveva di ben altri) o nascosta nelle vite altrui (vantava l’amicizia di una medaglia olimpica di non so quale specialitá).
Recentemente ho saputo che sono tornati a Roma.

Una coppia di Romani - 1

Lo scorso autunno, le mie amiche perugine (una delle quali allora lavorava al ristorante *** a Kamppi), mi invitarono a festeggiare il compleanno di un giovane cuoco del ristorante *** presso la discoteca Lux. Quella sera conobbi vari personaggi (di cui già scrissi in un post precedente), tra cui una coppia di Romani.
Abituato al cattivo gusto finlandese, mi colpì immediatamente il look della coppia.
Lui vestiva in maniera impeccabile un completo blu (mi piacquero molto anche le scarpe), era perfetto per uno di quei locali semi-esclusivi per vippetti, professionisti inquieti e arricchiti vari che animano le notti del centro di Roma; al collo portava una bellissima pietra.
Lei, elegantissima, lussureggiante, aveva lineamenti spagnoli e vestiva un abito nero con scialle nero, a mostrare quello che andava mostrato e coprire quello che andava coperto.
Entrambi liberi professionisti, lui aveva uno studio avviatissimo all'Aventino e lei lavorava in uno studio al centro.
La sera bazzicavano i locali a piazza del Popolo e andavano a ballare in una discoteca che sta tra largo Argentina e il Pantheon ("ci vanno quelli del Grande Fratello", mi dissero).
Lui mi raccontò che si erano trasferiti a Helsinki per provare a sfondare nel mercato finlandese che, a suo dire, non era ancora saturo come quello italiano.
Lei stava un po’ in disparte, mentre lui era molto loquace (mi colpí la sua risata, piú infantile che sguaiata, ripetuta ossessivamente).
Lui non entró in competizione con me per dimostrare di essere quello che aveva piú successo (cosa che spesso accade tra i maschi), essendo io un po’ piú giovane di lui (gli avrei dato 38-40 anni) e soprattutto perché quella sera non ero particolarmente in tiro: si sciolse, abbassó le difese e comincio a mostrarmi un po’ di se stesso.
Incontrai la coppia altre due volte (una volta al Baker’s e un’ultima di nuovo al Dux): lui loquace e spaccone (come tutti i Romani), lei defilata.

27 marzo 2007

Paesaggio brandeburghese

25/03/07. Sul treno da Wittenberge a Berlino.
Campi piatti, desolati, acquitrinosi. Macchie di abeti e pini. Superbi filari di querce nere e spoglie si stagliano contro l’orizzonte. Le querce dispiegano i rami con progressione frattale e coscienza spaziale metafisica; alcune sono gravate da nidi spuntati qua e là come metastasi.

Weekend al Neuer Hennings Hof - 2

Alle 15 massaggio ayurveda ai piedi (quando L. mi ha detto che ci aspetta un massaggio ayurveda io ho capito all’inizio juvemerda, poi ho realizzato ayurveda); alle 15:30 è il mio turno. La massaggiatrice ha un’aria timida e forme abbondanti (la massaggiatrice della mattina era un mascolino fascio di nervi). Mi fa stendere sul lettino, mette la solita musichetta new age e inizia a sfregarmi con un due guanti da doccia. Poi mi fa girare sulla schiena, mi stende sul corpo una coperta e mi depone sugli occhi una fascia aromatizzata. L’essenza non è molto esotica: mi ricorda l’odore dello spray anti-zanzare (ma lei aveva il sorriso di una che mi stesse offrendo aloe e terebinto).
La massaggiatrice mi cosparge il piede destro di olio e inizia a massaggiare: il massaggio è notevole e si sviluppa su delle linee ideali che vanno dal tallone alle dita dei piedi (e viceversa); si serve anche di pietre tiepide e fredde. Il massaggio alle dita sembra quasi un pizzicotto. Dopo il piede destro passa al piede sinistro. Pizzicandomi l’alluce sinistro, l’alluce scrocchia (lo fa sempre, ci sono abituato), ma lei si spaventa e mi chiede KAPUTT? Drogato dallo spray anti-zanzare riesco a trattenere le risate e la rassicuro. Finito il massaggio al piede sinistro, mi lascia ancora un po’ al calduccio sotto la coperta a godermi benefiche vibrazioni che dai piedi arrivano fino alla testa.
Poi si china su di me, mi toglie la fascia dagli occhi e mi dice che il massaggio è finito con un accenno di fiatella (che spezza l’incanto e mi fa tornare bruscamente alla realtà). Inizia a dire parole in Russo (forse crede che sia Russo dal cognome di L.): konec (fine), spasibo (grazie), požalujsta (prego). Io le dico che sono Italiano (lei non parla Inglese e io non parlo Tedesco, per cui mi esprimo in Italiano) e lei fa: Italienisch? Mamma mia!
Esco. Rilassato e divertito.
Torniamo nel nostro appartamentino. E’ molto confortevole e ben attrezzato per dei soggiorni superiori al weekend.
Ceniamo presto (non abbiamo pranzato). Il buffet offre: hirschgulasch (gulasch di renna, molto russo; ci torna in mente quel resort nella tajga di Taštagol), petti di pollo con cocco e albicocca (combinazione sonora e gastronomica notevole), seelachs (letteralmente salmone di lago; il traduttore online lo traduce: merluzzo nero) con spinaci; dolci. L. beve il solito (modestissimo) rosso locale e io la solita (gustosa) Hefeweizen scura.
Torniamo in camera (evitando il dancing offerto dall’albergo: in cui, immagino, una gloria localissima con baffi a punta e cocomero sotto la camicia intona di triplo mento nostalgici e struggenti canti della DDR o storpia con la complicità del pianolaro con cravatta da piazzista Funiculì funiculà o Kalinka).
La Domenica mattina é soleggiata e tiepida e a colazione non mi trattengo (esagero soprattutto con quelle mousse deliziose). Secondo un’usanza nordica, viene offerto del prosecco (forse come rimedio per il postumo d’ordinanza; il prosecco ci è stato offerto a colazione anche sulla Viking Line).
Alle 11:40 spaccate il pulmino dell’albergo ci viene a prendere al nostro appartamento e ci riporta alla stazione di Perleberg.

Weekend al Neuer Hennings Hof - 1

(note vergate senza alcun intento letterario)
Nelle loro memorie di viaggio Montaigne e Goethe spendono ottime parole per gli alberghi tedeschi (e pessime per quelli italiani). Con queste due autorevoli referenze ero ansioso di sperimentare di persona e, per quel poco che conta, confermo in tutto e per tutto il giudizio di Montaigne e Goethe.
Il weekend al Neuer Hennings Hof è il regalo di L. per il mio compleanno.
Arriviamo alla stazione di Perlberg dopo il tramonto. Fa più freddo che a Helsinki, piove. Un pulmino dell’albergo ci viene a prendere e ci porta direttamente al nostro appartamentino sul laghetto (memorabile il check-in sul pulmino: L. dice il suo cognome e l’autista le dà le chiavi dell’appartamentino e i due tesserini per l’accesso alle facilities). Giusto il tempo di farmi la barba e andiamo a cena.
Buffet: schweinefleisch (maiale arrosto), maiale stufato, auflauf (stufato di verdure), draniki (frittelle di farina di patate), pollo al coriandolo; aringhe preparate in vari modi; ovunque salsine deliziose; buona scelta di dolci. L. beve un (modestissimo) rosè locale e io una (semplice) Hefewizen chiara. Siamo soddisfattissimi della cena e andiamo a dormire.
Sabato mattina fa ancora freschetto, ma splende il sole. Facciamo colazione abbastanza presto; per qualche oscura ragione riesco a mantenermi abbastanza leggero: le possibilità di strafogarsi al buffet sono numerose: ampia scelta di affettati e formaggi (ci è piaciuto un caprino a pasta molle insaporito all'erba cipollina), di insalata e frutta e dolci (deliziose mousse di fragole, frutti di bosco o cappuccino con una base di pan di spagna).
Alle 11 L. ha il massaggio alla schiena. Mezz’ora dopo tocca a me: la massaggiatrice, nonostante il sorriso d’ufficio, si rivela una salutista integralista un filino lesbo: mi massaggia con vigore, cerco di non opporre resistenza, ma mi batte come un tappeto per le pulizie pasquali (l’effetto è positivo, dal collo al sedere mi sento tonico ed elastico).
La prossima sessione di massaggi è alle 15 e decidiamo di farci qualche sauna e una nuotata in piscina. Prendiamo gli accappatoi e ci cambiamo negli spogliatoi (distinti per donne e per uomini). Dallo spogliatoio si entra in piscina e dalla piscina si entra nella zona sauna. Appena entro nella zona sauna, mi passa davanti una vecchia: si toglie l’accappatoio e si getta nuda nel piccolo frigidarium e poi, sempre nuda, si fa una doccia tiepida. Ingenuamente non ci faccio caso, ma appena ci apprestiamo ad entrare in sauna, l’inserviente ci fa notare che in sauna, per motivi igienici, non si può portare il costume, cioè si deve stare nudi (ma allora perchè lo spogliatoio per donne e per uomini?).
La cosa mi mette in forte imbarazzo (nemmeno in Finlandia sarebbe immaginabile una storia del genere), ma ci adeguiamo: in sauna ci sono solo vecchie e vecchi nudi che non ci prestano la minima attenzione, ma non posso fare a meno di coprirmi e di chiedere a L. di coprirsi. 
Facciamo un po’ di saune e di docce fredde e piano piano il mio imbarazzo si stempera, perchè mi rendo che nessuno indugi nel guardarci (da uomo del Sud mi preoccupo soprattutto che nessun uomo guardi L.!). 
Le saune sono molto confortevoli, nonostante la forzata nudità. Molto tedescamente un cartello vieta di sudare sul legno. Le luci sono bassissime. Ci sono tre saune: la finn-sauna (classica), la kristall-sauna (un fascio di luce alogena illumina un grappolo di cristalli posti sopra il kiuas, cioè il braciere con le pietre; e luci cangianti balenano per la stanzetta: una cazzata new age) e la ambient-sauna (molto umida). 
Facciamo (in accappatoio) una pausa al bar, ci rimettiamo il costume e passiamo in piscina. Le saune stancano e non nuotiamo molto. Aspettiamo l’ora del massaggio sulle sdraio, guardando pigramente dei bambini che giocano in piscina.

23.03.2007

Berlino. Stazione di Jungfernheide. Ore 17:00 circa.

Attendo il regionale per Wittenberge. Incontrerò L. direttamente sul treno. Da Wittenberge prenderemo la coincidenza per Perleberg. E alla stazione di Perleberg un pulmino del Neuer Hennings Hof ci verrà a prendere.
Temperatura perfetta: freddo, ma solo quel tanto che basta per farti venir voglia di metter su un cappottino (senza l’angoscia finlandese di doverti difendere dal gelo e dal vento). Piacevole disperdere nella brezza leggera un po’ di tepore in eccesso.
Aria secca, ma non troppo. Una pigra pioggerellina la umidifica, la fa un po’ frizzante.
Fragranze di forno tedesco suggeriscono tepori domestici.
Il cielo basso e grigio non è minaccioso, imperla di languori madreperlacei le cose.
Persone si alternano nell’attesa dell’S-bahn in silenzio. Un merci mi urla alle spalle sferragliando.
I vagoni dell’S-bahn sono colorati di un rosso opulento e di un giallo stantio. Mi ricordano i tendaggi di un vecchio salotto.