Il giorno più importante. Il primo dei due giorni di festeggiamento.
Non c’e cerimonia (il matrimonio
civile è stato giá celebrato in Finlandia) e non c’è fretta: la festa
inizierà verso le due del pomeriggio. L., mia madre, C ed io
abbiamo il tempo di andare dal parrucchiere (per le donne una necessità,
per me un capriccio, ma in effetti di una sistemata ne ho proprio
bisogno). Tornati a casa, l’agitazione impera: il pullman per gli
invitati passa all’una e tutti si stanno vestendo in fretta e furia; la
macchina porterà L. e me al ristorante alle due e quindi abbiamo
ancora un po’ di tempo. Sono arrivati il fotografo e il suo assistente. Nell’attesa
delle due, il fotografo non sa più in che posa fotografarci, mentre il
suo assistente riprende il tutto con zelo meccanico. Ho preparato con
l’aiuto di L. un discorsetto in Russo; è talmente semplice che non
perdo nemmeno tempo a fissarmelo nella memoria (e di questo mi pentirò
più tardi).
Finalmente arrivano le due e partiamo per il ristorante.
L. tradisce nervosismo, io sono calmissimo. Decidiamo che io devo uscire e fingere di dimenticarmi di lei.
Appena arriviamo comincia il casino con gli invitati che applaudono e gridano e l’estrosa banda di musica tradizionale, gli Skomorohi (termine
russo arcaico per designare i musici erranti; nel giro della musica
tradizionale, banda piuttosto nota in Russia), che suona a tutto volume.
Esco, fingo di dimenticarmi la giacca e fingo di dimenticarmi L.
Sono tutte cose fatte e rifatte, ma il pathos e le risate degli invitati
sono genuini (c’è un qualcosa di terapeutico e rituale in questo).
Gli invitati sono disposti su due
file; in fondo, su di una piccola scalinata (che conduce all’ingresso
del ristorante), ci sono mia madre, mio fratello, il padre e la madre di L. con
il pane e il sale e la tamadà (figura di origine caucasica, animatrice della festa).
Passiamo tra le due file di invitati che ci lanciano petali di rosa fino
a raggiungere il gruppetto in cima alla scalinata. Inizia la tamadà
con un discorsetto (meno male, in Russo molto comprensibile). Mordiamo
la pagnotta (alcuni giorni dopo ho saputo che
la tradizione dice che chi stacca il morso più grosso sarà il vero capo
della famiglia). Beviamo dello champagne, gettiamo i bicchieri per
terra e li calpestiamo. Arriva una ragazza vestita da angelo e ci
consegna due candidi colombi, che prendiamo e lanciamo in aria dopo il
suo discorsetto (strana sensazione di caldo, morbido e fragile: non
avevo mai preso in mano un colombo; L. invece mostra dimestichezza;
il cuore del colombo che tengo tra le mie mani rulla come un tamburo, spero che non mi muoia tra le mani; appena lo libero se ne vola
via). L. è sinceramente rapita; io dopo un po’ rinuncio a sforzarmi
di seguire tutti quei discorsi in Russo (tutti auguri di amore e
felicità con variazioni sul tema) e mutuo espressone dalle espressioni degli invitati che
scruto attentamente: gran sorriso e occhi spalancati. Prima di entrare
nel ristorante calpestiamo un piatto.
Mentre gli invitati prendono posto, la tamadá
ci trascina per le cucine e per altri locali fino ad arrivare dietro le
quinte del palco che fa da fondale alla sala del banchetto. Noto una
gigantografia con L. e me (un collage composto con foto delle nozze
di Espoo) appesa come fondale del palco, su cui un chitarrista e una
violinista intonano il tema di Love story (in molto popoli, nelle manifestazioni di gioia c’é sempre una vena di malinconia; sfido chiunque a trovarla ne La società dei magnaccioni). Facciamo un’entrata trionfale.
I tavoli sono disposti a U. Al tavolo trasversale sedono i nostri genitori (e noi).
É tutto un susseguirsi di danze e
musiche: ballerini in costume tradizionale si esibiscono in danze
tradizionali, altri in abiti anni ’50 in scatenati rock and roll; gli Skomorohi, anche loro in magnifici costumi tradizionali, non risparmiano gli strumenti. La tamadà
conduce con la serena professionalità di un Pippo Baudo: dà mostra di
conoscere tutti gli invitati ed assegna ad ognuno dei nomignoli. Nel
frattempo si comincia a mangiare.
Gli ospiti mangiano. L. ed io no: dobbiamo ascoltare i discorsi della tamadà,
guardare i balli; non so come sono riuscito almeno a inghiottire un
paio di forchettate dal cocktail di scampi che mi sprigiona il suo
profumo sotto il naso; sul tavolo c’è ogni ben di dio: blini (specie di crêpes suzettes) con
caviale rosso, funghi e cipolle sott’aceto, melanzane con aglio e
formaggio (un certo amico di Palermo apprezzerebbe), altre verdure,
carni, vari tipi di pane; agli angoli del tavolo dei maialini arrosto
aspettano di essere affettati.
Si snoda una teoria infinita di
brindisi e discorsi
con complementi di baci, abbracci, lacrime, voce di tamadà, musica degli Skomorohi. Non faccio in tempo a sedermi che subito bisogna rialzarsi.
L. ed io balliamo un valzer.
La tamadà
scompare per un quarto d’ora: ne approfitto per mangiare qualcosa.
Quando torna, entriamo nel vivo della festa: gli invitati ci danno i
loro regali.
Ci sistemiamo sotto il palco e ogni famiglia, invitata dalla tamadà, tiene un discorsetto (nelle persone del marito e della moglie), ci consegna il regalo, beve una vodka e mangia un blin.
Anche ora pianti, baci, abbracci. Gli invitati non sembrano finire mai.
Questa serie "discorsetto regalo baci abbracci
pianti vodka blin" ha un non so che di straniante, di ipnotico. Cominciano a dolermi le guance a forza di sorridere.
Tra l’altro ogni trenta secondi qualcuno del pubblico comincia a urlare a ripetizione gor’ko (che significa amaro)
e devo baciare la sposa (non che la cosa mi dispiaccia, ma dopo la
settecentocinquantatreesima volta inizia diventare pesante).
Torniamo
finalmente al tavolo e faccio appena in tempo a mettermi in bocca uno
di quei divini involtini di melanzana con formaggio e aglio, che la
festa si trasferisce in giardino.
Dei cuochi stanno preparando degli šašlyki,
dei quali sentiamo a malapena il profumino, visto che il fotografo e il
suo fedele assistente ci rapiscono per una serie
infinita di romantiche fotografie tra le betulle. Quando finalmente
nemmeno loro resistono più a quell’aroma di maiale alla brace che vaga
per il giardino, ci concedono una tregua.
Tregua che dura appena il tempo di mangiarmi uno šašlyk che
mi dicono che la sposa è scomparsa. Nella tradizione russa lo sposo
deve comprare la sposa la mattina, prima di andare al comune, ma noi in
comune siamo già stati due mesi prima. Per comprare la sposa, lo sposo
deve superare una serie infinita di giochi, ma con me sono stati
magnanimi e devo farne uno solo: mi mettono sotto il naso una mela in
cui sono stati infilati una trentina di fiammiferi. Per ogni aggettivo
che pronuncio (in Russo) in lode di L. ho diritto a sfilare un
fiammifero. All’inizio è facile: bella, brava, intelligente, dolce, etc;
superato il ventesimo nemmeno i Russi sanno più che inventarsi per
aiutarmi. Le altre due prove sono passeggiate in confronto: devo cantare una canzone in Russo e me la cavo con Kalinka (col senno di poi avrei intonato Oci ciornie) e poi una in Italiano e me la cavo con O sole mio (meno male che gli Italiani e gli Skomorohi mi hanno aiutato laddove la voce non arrivava).
Mi riconsegnano L.
Torniamo
in sala. Trovo nel piatto il maialino arrosto (ripieno di vari tipi di
carni). A fianco un piatto con del pesce (che non avró tempo nemmeno di
assaggiare). Riesco a mandar giú due bocconi di maialino che la tamadá ci
chiama. Fa il solito discorsetto e si presentano il fratello di L. e il marito di
una sua cugina vestiti da neonati: fanno il giro dei tavoli
raccogliendo soldi dentro delle calze (tutti i giochi sono, nella
tradizione, finalizzati a raccogliere soldi per gli sposi; anche la
torta si “vende” e gli invitati devono “comprarla”; oppure devono
“comprare” le posate per mangiare).
Dopo
altri giochi, buttano paglia e coriandoli per terra e L. deve
dimostrare di essere una brava donna di casa pulendo il pavimento;
mischiati a paglia e coriandoli ci sono dei rubli che io devo
raccogliere per dimostrare di saper portare i soldi casa; gli invitati
si divertono a disturbarci e a mettere dei rubli nei posti piú strani.
Viene
il momento del discorso degli sposi. Comincia L.: racconta, tra le
altre cose, le prove tremende che ho dovuto superare nell’Agosto 2005
per avere la sua mano: ho dovuto vincere la terra, l’acqua e l’aria. La
terra: sono disceso a -420m in una miniera di carbone; l’acqua: ho
nuotato nel gelido Mrassù, un fiume che scorre nella tajga; il
cielo: mi sono arrampicato come una scimmietta sui (traballanti)
ponteggi della casa in cui siamo ospiti, ma che due anni fa era in
costruzione. Aggiungo in extremis il fuoco (la prova più facile): ho
dovuto (con piacere) mangiare svariati chili di šašlyki (cotti al fuoco).
Ora
tocca a me parlare. Mi accorgo di non ricordarmi una parola del mio
discorso. Ma come? Stamattina me lo ricordavo. Non ho il tempo per
mandarmi a quel paese e comincio a parlare. Ho ripetuto senza
intonazione alcuna brani del discorso che mi ritornavano in bocca come
conati di vomito. Ho detto delle cose così senza senso che non so dire
se ho fatto pietà o schifo e nemmeno mi becco un applauso di cortesia.
Comincia la musica e si
comincia a ballare (ne approfitto per dedicarmi al maialino e agli
involtini di melanzane per dimenticare la figuraccia). Balliamo anche
noi.
La tamadá
ci invita fuori e troviamo due cuori in fiamme, l’uno nell’altro. Fatte
le foto di rito, ci trasferiamo tutti nel giardino dietro il
ristorante, dove é preparato uno spettacolo pirotecnico. I fuochi
d’artificio sono bellissimi.
Torniamo
dentro; posso finalmente mangiare indisturbato. La festa sta per
terminare. Gli invitati sono stanchi, trovo il fotografo e il suo
inseparabile assistente esausti e stravaccati su due poltrone. L’unico
arzillo é l'autista (che mi dicono abbia mangiato e bevuto per
tutta la giornata senza curarsi di niente e nessuno), che ci riporta a
casa.