31 agosto 2007

Sabato 18 Agosto 2007 - KEMEROVO - MATRIMONIO

Il giorno più importante. Il primo dei due giorni di festeggiamento.
Non c’e cerimonia (il matrimonio civile è stato giá celebrato in Finlandia) e non c’è fretta: la festa inizierà verso le due del pomeriggio. L., mia madre, C ed io abbiamo il tempo di andare dal parrucchiere (per le donne una necessità, per me un capriccio, ma in effetti di una sistemata ne ho proprio bisogno). Tornati a casa, l’agitazione impera: il pullman per gli invitati passa all’una e tutti si stanno vestendo in fretta e furia; la macchina porterà L. e me al ristorante alle due e quindi abbiamo ancora un po’ di tempo. Sono arrivati il fotografo e il suo assistente. Nell’attesa delle due, il fotografo non sa più in che posa fotografarci, mentre il suo assistente riprende il tutto con zelo meccanico. Ho preparato con l’aiuto di L. un discorsetto in Russo; è talmente semplice che non perdo nemmeno tempo a fissarmelo nella memoria (e di questo mi pentirò più tardi).
Finalmente arrivano le due e partiamo per il ristorante.
L. tradisce nervosismo, io sono calmissimo. Decidiamo che io devo uscire e fingere di dimenticarmi di lei.
Appena arriviamo comincia il casino con gli invitati che applaudono e gridano e l’estrosa banda di musica tradizionale, gli Skomorohi (termine russo arcaico per designare i musici erranti; nel giro della musica tradizionale, banda piuttosto nota in Russia), che suona a tutto volume. Esco, fingo di dimenticarmi la giacca e fingo di dimenticarmi L. Sono tutte cose fatte e rifatte, ma il pathos e le risate degli invitati sono genuini (c’è un qualcosa di terapeutico e rituale in questo).
Gli invitati sono disposti su due file; in fondo, su di una piccola scalinata (che conduce all’ingresso del ristorante), ci sono mia madre, mio fratello, il padre e la madre di L. con il pane e il sale e la tamadà (figura di origine caucasica, animatrice della festa). Passiamo tra le due file di invitati che ci lanciano petali di rosa fino a raggiungere il gruppetto in cima alla scalinata. Inizia la tamadà con un discorsetto (meno male, in Russo molto comprensibile). Mordiamo la pagnotta (alcuni giorni dopo ho saputo che la tradizione dice che chi stacca il morso più grosso sarà il vero capo della famiglia). Beviamo dello champagne, gettiamo i bicchieri per terra e li calpestiamo. Arriva una ragazza vestita da angelo e ci consegna due candidi colombi, che prendiamo e lanciamo in aria dopo il suo discorsetto (strana sensazione di caldo, morbido e fragile: non avevo mai preso in mano un colombo; L. invece mostra dimestichezza; il cuore del colombo che tengo tra le mie mani rulla come un tamburo, spero che non mi muoia tra le mani; appena lo libero se ne vola via). L. è sinceramente rapita; io dopo un po’ rinuncio a sforzarmi di seguire tutti quei discorsi in Russo (tutti auguri di amore e felicità con variazioni sul tema) e mutuo espressone dalle espressioni degli invitati che scruto attentamente: gran sorriso e occhi spalancati. Prima di entrare nel ristorante calpestiamo un piatto.
Mentre gli invitati prendono posto, la tamadá ci trascina per le cucine e per altri locali fino ad arrivare dietro le quinte del palco che fa da fondale alla sala del banchetto. Noto una gigantografia con L. e me (un collage composto con foto delle nozze di Espoo) appesa come fondale del palco, su cui un chitarrista e una violinista intonano il tema di Love story (in molto popoli, nelle manifestazioni di gioia c’é sempre una vena di malinconia; sfido chiunque a trovarla ne La società dei magnaccioni). Facciamo un’entrata trionfale.
I tavoli sono disposti a U. Al tavolo trasversale sedono i nostri genitori (e noi).
É tutto un susseguirsi di danze e musiche: ballerini in costume tradizionale si esibiscono in danze tradizionali, altri in abiti anni ’50 in scatenati rock and roll; gli Skomorohi, anche loro in magnifici costumi tradizionali, non risparmiano gli strumenti. La tamadà conduce con la serena professionalità di un Pippo Baudo: dà mostra di conoscere tutti gli invitati ed assegna ad ognuno dei nomignoli. Nel frattempo si comincia a mangiare.
Gli ospiti mangiano. L. ed io no: dobbiamo ascoltare i discorsi della tamadà, guardare i balli; non so come sono riuscito almeno a inghiottire un paio di forchettate dal cocktail di scampi che mi sprigiona il suo profumo sotto il naso; sul tavolo c’è ogni ben di dio: blini (specie di crêpes suzettes) con caviale rosso, funghi e cipolle sott’aceto, melanzane con aglio e formaggio (un certo amico di Palermo apprezzerebbe), altre verdure, carni, vari tipi di pane; agli angoli del tavolo dei maialini arrosto aspettano di essere affettati.
Si snoda una teoria infinita di brindisi e discorsi con complementi di baci, abbracci, lacrime, voce di tamadà, musica degli Skomorohi. Non faccio in tempo a sedermi che subito bisogna rialzarsi.
L. ed io balliamo un valzer.
La tamadà scompare per un quarto d’ora: ne approfitto per mangiare qualcosa. Quando torna, entriamo nel vivo della festa: gli invitati ci danno i loro regali.
Ci sistemiamo sotto il palco e ogni famiglia, invitata dalla tamadà, tiene un discorsetto (nelle persone del marito e della moglie), ci consegna il regalo, beve una vodka e mangia un blin. Anche ora pianti, baci, abbracci. Gli invitati non sembrano finire mai. Questa serie "discorsetto regalo baci abbracci pianti vodka blin" ha un non so che di straniante, di ipnotico. Cominciano a dolermi le guance a forza di sorridere.
Tra l’altro ogni trenta secondi qualcuno del pubblico comincia a urlare a ripetizione gor’ko (che significa amaro) e devo baciare la sposa (non che la cosa mi dispiaccia, ma dopo la settecentocinquantatreesima volta inizia diventare pesante).
Torniamo finalmente al tavolo e faccio appena in tempo a mettermi in bocca uno di quei divini involtini di melanzana con formaggio e aglio, che la festa si trasferisce in giardino.
Dei cuochi stanno preparando degli šašlyki, dei quali sentiamo a malapena il profumino, visto che il fotografo e il suo fedele assistente ci rapiscono per una serie infinita di romantiche fotografie tra le betulle. Quando finalmente nemmeno loro resistono più a quell’aroma di maiale alla brace che vaga per il giardino, ci concedono una tregua.
Tregua che dura appena il tempo di mangiarmi uno šašlyk che mi dicono che la sposa è scomparsa. Nella tradizione russa lo sposo deve comprare la sposa la mattina, prima di andare al comune, ma noi in comune siamo già stati due mesi prima. Per comprare la sposa, lo sposo deve superare una serie infinita di giochi, ma con me sono stati magnanimi e devo farne uno solo: mi mettono sotto il naso una mela in cui sono stati infilati una trentina di fiammiferi. Per ogni aggettivo che pronuncio (in Russo) in lode di L. ho diritto a sfilare un fiammifero. All’inizio è facile: bella, brava, intelligente, dolce, etc; superato il ventesimo nemmeno i Russi sanno più che inventarsi per aiutarmi. Le altre due prove sono passeggiate in confronto: devo cantare una canzone in Russo e me la cavo con Kalinka (col senno di poi avrei intonato Oci ciornie) e poi una in Italiano e me la cavo con O sole mio (meno male che gli Italiani e gli Skomorohi mi hanno aiutato laddove la voce non arrivava).
Mi riconsegnano L.
Torniamo in sala. Trovo nel piatto il maialino arrosto (ripieno di vari tipi di carni). A fianco un piatto con del pesce (che non avró tempo nemmeno di assaggiare). Riesco a mandar giú due bocconi di maialino che la tamadá ci chiama. Fa il solito discorsetto e si presentano il fratello di L. e il marito di una sua cugina vestiti da neonati: fanno il giro dei tavoli raccogliendo soldi dentro delle calze (tutti i giochi sono, nella tradizione, finalizzati a raccogliere soldi per gli sposi; anche la torta si “vende” e gli invitati devono “comprarla”; oppure devono “comprare” le posate per mangiare).
Dopo altri giochi, buttano paglia e coriandoli per terra e L. deve dimostrare di essere una brava donna di casa pulendo il pavimento; mischiati a paglia e coriandoli ci sono dei rubli che io devo raccogliere per dimostrare di saper portare i soldi casa; gli invitati si divertono a disturbarci e a mettere dei rubli nei posti piú strani.
Viene il momento del discorso degli sposi. Comincia L.: racconta, tra le altre cose, le prove tremende che ho dovuto superare nell’Agosto 2005 per avere la sua mano: ho dovuto vincere la terra, l’acqua e l’aria. La terra: sono disceso a -420m in una miniera di carbone; l’acqua: ho nuotato nel gelido Mrassù, un fiume che scorre nella tajga; il cielo: mi sono arrampicato come una scimmietta sui (traballanti) ponteggi della casa in cui siamo ospiti, ma che due anni fa era in costruzione. Aggiungo in extremis il fuoco (la prova più facile): ho dovuto (con piacere) mangiare svariati chili di šašlyki (cotti al fuoco).
Ora tocca a me parlare. Mi accorgo di non ricordarmi una parola del mio discorso. Ma come? Stamattina me lo ricordavo. Non ho il tempo per mandarmi a quel paese e comincio a parlare. Ho ripetuto senza intonazione alcuna brani del discorso che mi ritornavano in bocca come conati di vomito. Ho detto delle cose così senza senso che non so dire se ho fatto pietà o schifo e nemmeno mi becco un applauso di cortesia.
Comincia la musica e si comincia a ballare (ne approfitto per dedicarmi al maialino e agli involtini di melanzane per dimenticare la figuraccia). Balliamo anche noi.
La tamadá ci invita fuori e troviamo due cuori in fiamme, l’uno nell’altro. Fatte le foto di rito, ci trasferiamo tutti nel giardino dietro il ristorante, dove é preparato uno spettacolo pirotecnico. I fuochi d’artificio sono bellissimi.
Torniamo dentro; posso finalmente mangiare indisturbato. La festa sta per terminare. Gli invitati sono stanchi, trovo il fotografo e il suo inseparabile assistente esausti e stravaccati su due poltrone. L’unico arzillo é l'autista (che mi dicono abbia mangiato e bevuto per tutta la giornata senza curarsi di niente e nessuno), che ci riporta a casa.

26 agosto 2007

Giovedí 16 Agosto 2007 - MOSCA

Arrivo a Mosca, aeroporto di Šeremet’evo, a mezzogiorno e zero cinque, in perfetto orario. Uscito dall’aereo, mi fiondo al controllo passaporti, che supero prima che si formi la solita fila; i bagagli escono subito, il mio tra i primi.
A prendermi trovo l'autista Jurij; con Jurij c’intendiamo subito e subito scaldo il mio Russo; nell’attesa di C&C (che arriveranno tra due ore e mezza) ci scoliamo qualche birra e programmiamo la giornata.
La giornata è molto calda e il sole picchia.
Alle due e mezza raccolgo C&C dall’uscita passeggeri e li porto alla monovolume e subito partiamo per Mosca.
Sono eccitatissimo: di Mosca ho sentito parlare come di un’idra caotica e tumorale, come di un pazzo bestiario di tutte le possibili diseguaglianze; divoro con gli occhi tutto quello che vedo: le strade a sei o sette corsie intasatissime, la folla inesauribile che traghetta sopra i numerosi ponti pedonali, le tipiche torri residenziali socialiste... Abituato a Helsinki, il cui tessuto urbano è sfilacciato e rado (fatta eccezione per i quarteri di Eira e Töölö), questi monumentali assi viarii arginati da alte muraglie di edifici mi danno finalmente la sensazione di trovarmi in una CITTA’.
A metà strada tra l’aeroporto e il centro, ci aspetta VN, il capo di Jurij, che ci ospita in una berlina, più agevole per il traffico moscovita della monovolume, dove lasciamo armi e bagagli, sotto la custodia di Jurij.
VN ci porta a mangiare in un ottimo ristorante giapponese (la cucina giapponese impazza in Russia). Durante il pranzo parlo un po’ con VN, la sua parlantina sciolta richiede la mia massima attenzione: VN ha l’aria di un tipo sveglio e io voglio che anche lui mi consideri in gamba.
VN è Siberiano, di Tjumen’. Lo dice con orgoglio; si è trasferito a Mosca solo per il biznes. E il biznes gli va bene.
Dopo pranzo VN se ne ritorna al suo biznes e ci affida di nuovo a Jurij. Abbiamo giusto il tempo per fare un salto alla Piazza Rossa. La Piazza Rossa sembra un richiamo per turisti devoti praticanti di luoghi comuni e pii lettori di guide, la vera Mosca non è certo qui. Ripenso al breve tragitto a piedi di poco prima: dalla macchina al ristorante e viceversa in una strada qualsiasi di Mosca: i miei ormoni impazzivano e non solo a causa dell'infinita bellezza delle donne russe: esplodevano in me ricordi dalle letture più disparate, da Dostoevskij a Solženicyn, da Puškin a Nabokov, da Lermontov a Platonov, immagini dai classici del cinema sovietico degli anni ’60-‘80, mi fremeva dentro un’idea irreale di Russia, una cristallizzazione di miraggi d’amore, di memorie di viaggio, di odori, sapori, forme (di donna, d’edifici), d’attimi rubati alla meccanica del vivere.
Facciamo una brevissima visita alla cattedrale del Cristo Salvatore: la cattedrale venne demolita negli anni ’30 per edificare al suo posto un gigantesco centro congressi, di cui furono gettate solo le fondazioni; dopo la guerra dall’area di ricavò una piscina scoperta (infatti nella mia guida di Mosca del ’64 della chiesa non si fa menzione); la cattedrale venne ricostruita poi da El’cyn e in questa cattedrale è stato celebrato il suo funerale.
Si è fatto tardi e dobbiamo tornare all’aeroporto di Šeremet’evo a prendere i miei che arrivano da Roma. Il traffico del pomeriggio è vasto, ma in qualche modo riusciamo a fare in tempo. Il buon Jurij ci porta al terminal nazionale (che dista venti minuti buoni di macchina da quello internazionale); il check in per il volo per Kemerovo è già aperto e facciamo tutte le file (non mi ricordo più quante) fino ad arrivare al ponte d’imbarco. L’anno scorso il ponte d’imbarco era nell’edificio principale e quest’anno si trova in un edificio secondario collegato da un passaggio vetrato. Qui non c’è aria condizionata e il caldo è insopportabile. Una volta imbarcati la situazione non migliora.
Per qualche oscura ragione C&C e io siamo seduti davanti, mentre gli Italiani dietro. Vicino a me siede un ingegnere russo sui quarant’anni, è emigrato in Canada e torna a trovare i suoi per qualche giorno; ha modi molto occidentali. Dopo cena, m’immergo nell’Autunno del medioevo di Huizinga, cercando nella lettura di stemperare l’eccitazione di questa lunga giornata e di trovare il sonno.

25 agosto 2007

Ultima notte in Siberia

Casa dei genitori di L.
Ultima breve notte. Sveglia alle cinque. La valigia é pronta. Corpo e spirito pacificati dopo una robusta sauna.
Per qualche oscura ragione le tende non erano chiuse del tutto e penetrava liberamente una lama di luce. Non so se fosse artificiale o naturale: era di un bianco latteo, mistico; come un’amorevole benedizione che provenisse da altezze irraggiungibili; come una lievissima carezza che però contenesse forza e sicurezza non umane.
La luce si adagiava in punta di pennello sul viso di L. dormiente, trasfigurandolo, come la luce spirituale delle icone, ma come la mano ispirata del divino Rublëv non saprebbe mai fare: un sottile alone spirava dalla guancia, dal sorriso, dalla palpebra di L., al ritmo regolare del suo respiro, e vaporava per tutta la stanza.
Nell’attesa del sonno meditavo confusamente sulle promesse di matrimonio pronunciate frettolosamente di fronte al prete di Hki. Quattro lucchetti a protezione del tesoro che mi dormiva tra le braccia. E la Luce ne era la chiave.

7 agosto 2007

La tentazione gnostica - 1

Negli ultimi anni ho sviluppato un interesse per alcune discipline che potremmo chiamare eterodosse, come la filosofia ermetica e la gnosi.
Ho ricevuto una formazione scientifica sensu lato e l’applicazione della meccanica newtoniana é il mio pane quotidiano. 
Nell’elaborazione della mia tesi di laurea, il mio relatore mi fece studiare il pentagono, la spirale costruita sulla sezione aurea e le loro reciproche relazioni; sotto la sua guida scoprii la serie di Fibonacci e i numeri di Fidia. Mi folgoró sulla via di Damasco l’idea che le perfette proporzioni di queste figure geometriche fossero indizio di maggiore e piú alta Perfezione, che fossero prova di un Ordine nell’universo. Che questo Ordine fosse intellegibile, ma oscuro; che dovesse essere ricercato e alla fine venisse rivelato. Che le sue Leggi fossero maggiori e piú alte delle leggi della fisica e della chimica insegnate all’universitá.
Le ricerche del mio relatore hanno un indirizzo prettamente estetico-architettonico, nel senso che sono finalizzate alla figurazione dello spazio. In un primo momento rimasi legato all’architettura ed elaborai una modesta teoria estetica dell’architettura di forte impostazione magico-neoplatonica (intendendo per magia un demiurgico operare sulla materia). 
Lessi Platone, l’Alberti, Ficino, Cusano, Pico, l’Hypnoerotomachia Polyphili.
Imparai che per secoli i saperi eterodossi avevano camminato parallelamente a quelli ortodossi e spesso si erano mescolati inestricabilmente: Keplero fu astronomo e astrologo, Newton fu fisico e alchimista. 
Scoprii l’alchimia. Di cui mi attrasse subito l’interpretazione junghiana. Jung vide nel pensiero ermetico la proiezione dell’inconscio collettivo umano e, attraverso uno studio comparato sui sogni e sui mandala, investigó l’archetipo del Sé.
Nella prima parte di Psicologia e alchimia Jung descrive lucidamente il suicidio spirituale dell’Occidente nel materialismo. Le sue parole mi colpirono profondamente; soprattutto non mi aspettavo di trovare Jung difendere l’anima e sostenere che essa fosse naturaliter christiana. 
Alchimia é una parola araba che significa (se non ricordo male) "la terra nera", che per sineddoche designa l’Egitto. E infatti tra i fondatori mitici dell’alchimia si contano Ermete Trismegisto (versione ellenistica del dio egizio Toth) e Maria l’Ebrea (sorella di Mosé e Aronne).
L’achimia é una disciplina oscura e segreta e per questa ragione non é compatibile con la sistematizzazione delle scienze moderne. Lo stesso fine dell’alchimia é occulto: assai rozzamente potremmo dire che il suo fine sia quello di operare sulla materia per liberarne lo Spirito che essa tiene imprigionato (nell’alchimia cinese il fine dichiarato é spesso quello di portare a perfezione fisica, intellettuale e morale l’alchimista); non esiste nemmeno un modo univoco per nominare il risultato di queste operazioni: pietra dei filosofi (filosofale), uovo dei filosofi, nostro oro, nostro argento, nostra acqua, ecc. (in alcuni autori accade che il nome della materia di partenza e quello del "prodotto" finale coincidano). 
Necessariamente la tradizione alchemica si fonda su un sapere celato, la cui fuizione non puó che giungere al termine di una lunga ricerca, durante la quale l’alchimista opera sulla materia e su se stesso fino a liberare dal gravame morale (della materia) e la pietra e se stesso.
L’idea di un sapere occulto e ancestrale, a petto del quale le scienze ortodosse fossero solo eidola theatri baconiani, mi portó alla gnosi. Lessi Guenon ed Evola.