23 ottobre 2006

Konec revoljucii - 2

Inja: un villaggio miserabile di qualche decina di izbe annerite dalle stagioni. Uno scaracchio d'umanità perso tra i monti verderame dell'Altaj, spalmato sulla valle scavata dal fiume Katun', un pianoro battuto da venti implacabili buono solo a pascolarci i cavalli; un villaggio (il cui nome in altaico significa 'spalla') oltre il quale un araldo del marxismo-leninismo decise che non valesse più la pena di proseguire, perchè da lì fino alla Cina e alla Mongolia (lontane un paio di cento chilometri) non ci abitava più nessuno e non c'erano dunque più proletari da redimere, né nulla da saccheggiare.

Quel giorno percorremmo circa 350 km in direzione sud-est dalla città di Čemal (nostra base nell'Altaj) per andare a vedere la cascata del torrente Tutugoj (prima che questo si getti nella Čuja, affluente della Katun') e ne facemmo altrettanti per tornare indietro.
Lasciammo la fragrante e fertile valle del fiume Čemal, con i suoi meli e i suoi albicocchi, le cui falde sono popolate da salutari cedri e pini, e seguendo la statale M-52 abbandonammo le verdi rive della Katun' e ci addentrammo per valli di latifoglie.
Prendemmo a salire fino ad arrivare in un vasto altopiano, destinato a pascolo per le renne e presidiato da Ondugaj, un campaccio rigagnoluto trapuntato di scure izbe, con qualche edificio pubblico in muratura e capannoni in cemento, ormai in rovina, di un grigio amaro e butterato. Come il cielo, che diffondeva una luce granulosa ma perspicua, minata da pioggia ora lieve ora intensa. Ci rifocillammo con dei čebureki ripieni di carne di montone (una sorta di ravioli fritti originari dell'Uzbekistan) e riprendemmo il cammino.
Passammo il valico del Čike Taman e ci riaffacciammo di nuovo sulla valle della Katun'.
Finora la strada aveva attraversato villaggi, campi, boschi; avevamo superato trattori e ciclisti e babuški, che vendevano pomodori e cetrioli sul ciglio dell'asfalto, ora, a perdita d'occhio, di fronte a noi solo valli e giogaie brulle e ventose; rarissime izbe e rarissimi alberi stonavano in queste lande impetuose e impietose. Era tutto un frantumarsi di rocce verdi su ripidi crinali (la valle della Katun' trabocca di rame, le sue stesse acque sono limpidissime, ma verdi), un petroso franare, un sabbioso sbriciolarsi di fianchi di collina, sotto un vento fottuto che asciugava qualsiasi pollare d'umidità.
Era chiaro perché l'araldo del marxismo-leninismo decise che non valesse più la pena di proseguire.
Le valli apparivano aride, rinsecchite, misere di sterpaglia spuntata tra il sassame, eppure erano rigate in tutti i sensi da numerosi corsi d'acqua di tutte le taglie e di tutti i colori, che s'andavano a gettare nella Katun', dea madre dell'Altaj, che unendosi alla Bija dà vita alla Ob', che attraversa tutta la Siberia fino al mare glaciale).
Arrivammo a Inja. Da una parte della strada un enorme masso erratico, dall'altra parte una fermata d'autobus, eretta nel tipico cemento massiccio socialista, che si presentava come un incrocio tra una casamatta e un vespasiano. Accanto alla pensilina, una serie di vecchie latte piene di cetrioli e minute mele siberiane parevano aspettare l'autobus, ma improvvisamente dalla casamatta-vespasiano vennero fuori giovani donne esili, con zigomi forti e occhi a mandorla (e bambine paffute sbocconcellanti al seguito) con l'intento di vendercele.

17 ottobre 2006

Konec revoljucii - 1


C'è stato un tempo in cui il mondo non era connesso e non era contratto nella globalizzazione, un tempo in cui le distanze fisiche erano un limite reale al circolare degli uomini e delle idee. Eppure quel tempo appartiene anche alla storia recente, alla storia del secolo scorso.
La rivoluzione russa non è stata un big bang che in una frazione di sospiro ha investito l’impero dello car’, da Petrograd alla Kamčatka, non si è propagata alla velocità della luce dal mar baltico al mare di Bering, ma venne diffusa, venne (mi si perdoni il termine evangelico) annunciata, secondo le possibilità di allora. L'armata rossa durò fatica a imporre il verbo di Lenin e la dittatura del proletariato e impiegò alcuni anni e innumerabili vite a sconfiggere l'armata bianca.
Immaginiamo ora la sterminata desolazione della Siberia, immaginiamone le zone periferiche, in cui i villaggi, a causa dell'arido deserto o del gelo perenne, sono rarissimi e vivono solo isolati cacciatori: le notizie sono portate a piedi o a dorso di cavallo o di cammello, le comunicazioni sono alla mercè delle piogge, della neve, del disgelo. Eppure anche agli abitanti più sperduti giunge la novella rossa e tutti sanno che lo car’ è stato rovesciato e che vengono istituiti i soviet.
Uomini sporchi e stanchi, dal grilletto facile, percorsero a cavallo tutta la Siberia, predicando la rivoluzione di villaggio in villaggio in bande sanguinarie, requisendo vodka e bestiame, seducendo contadinotte e macellando nobili, possidenti e borghesi (come racconta Ferdinand Ossendowski nel suo Bestie, uomini e dei).
Eppure ci dev'essere stato un limite fisico o un confine mentale al loro pervagare, al loro annunciare. Ci dev'essere stato un punto oltre il quale questi araldi del marxismo-lenisimo decisero che non valesse più la pena di proseguire e diffondere.
Ebbene, uno di quei punti esiste e si chiama Inja.

16 ottobre 2006

Simmel

Ho appena letto degli scritti su Rembrandt di Proust e Simmel (entrambi in edizione Abscondita). Quanta differenza tra i due!
Proust indugia nella descrizione della luce crepuscolare rembrandtiana, di quell'oro morente di cui lacca oggetti e persone, e ferisce il cuore, mentre l'indagine estetica di Simmel, che è corazzata di filosofia e brandisce acume come una spada, penetra nell'interno dell'arte dell'olandese, chiarendo al cervello ciò che ha già affascinato il cuore.
Ma non voglio parlare di questo, voglio citare una frase di Simmel: "ovunque c'è confronto, per quanto grandi siano le differenze, ci sono sempre premesse comuni, sulla cui base il confronto è possibile ed esiste" (da Georg Simmel, "Studi su Rembrandt", Edizioni Abscondita, Milano, 2006, pag. 51).
Caliamo questa frase nel suo contesto: Simmel sta confrontando i ritratti rembrandtiani con quelli italiani quattrocenteschi; ma la valenza della sua frase è universale e credo che possa essere applicata senza incertezze anche all'analisi del tempo in cui viviamo, con particolare riferimento allo "scontro di civiltà" (sensu lato; sebbene non condivida completamente questa espressione, me ne servo per la sua immediatezza).
Riscriviamo la frase di Simmel: un confronto esiste ed è possibile solo se ci sono premesse comuni, non importa quanto grandi siano le differenze. Ora io mi chiedo: ci sono delle premesse comuni che possano essere il fondamento di un dialogo (confronto) tra le "civiltà" (che si stanno "scontrando")?
Forse non ha senso rispondere alla domanda per la sua genericità e indeterminatezza. Ma ha senso porsi il problema.

7 ottobre 2006

Una splendida donna

Durante uno scalo all'aeroporto di Šeremet'evo (Mosca), alla fine di agosto, osservavo gli altri passeggeri nell'attesa del volo per Helsinki e la mia attenzione è stata catturata da una donna russa di circa trentacinque anni, che era con due bambini.
Il piccolo, avrà avuto due o tre anni, era stanco e nervoso e la madre aveva gran cura a coccolarselo e a mormorargli all'orecchio dolci paroline per calmarlo. La figlia grande, di una decina d'anni, leggeva composta e assorta un manuale di scacchi per bambini (quei grandi liquidi occhi marroni, quel taglio languido della bocca e quelle due lunghe trecce bionde fra non molto causeranno sospiri e desideri a maschi di varie età).
Quella donna mi dava scacco
Era indubbiamente bella. Forse appena qualche anno prima era stata bellissima, come possono esserlo le russe. Ma i due parti avevano lasciato tracce: il seno si era un po' appesantito, mentre i fianchi, forse ora un po' troppo generosi, erano fasciati da un morbido e ampio panneggio. Anche la freschezza del volto era provata dal viaggio.
Eppure non riuscivo a staccare gli occhi da lei.
Nel frattempo da uno schermo era proiettato un video di un'agenzia di viaggi, in cui giovani tenniste russe giocavano a tennis tra i monumenti del mondo. La camera indugiava birichina tra i loro volti deliziosi e tra le loro curve ipnotizzanti; naufragavo nelle divine proporzioni dei loro corpi, m'arrovellavo nel computo del taglio dei loro occhi o delle loro labbra, nella misurazione delle gambe ben plasmate che esplodevano energia di tra lo svolazzar dei gonnellini. Ma, sopravvissuto allo sturbo iniziale, mi rendevo conto di quanta finzione ci fosse nelle giovani tenniste e di quanta realtà ci fosse nella madre che mi sedeva di fronte.
Sebbene m'ispirassero entrambe desideri sessuali, erano desideri differenti: le tenniste incarnavano una passione sterile, la madre un desiderio fecondo; le tenniste incarnavano la bellezza della perfezione formale, la madre la bellezza della fertilità, dell'amore consumato fino in fondo. Le tenniste erano icone bidimensionali, coiti interrotti, maternità rinunciate, la madre è donna perfetta, perchè ha portato a compimento l'amore nella generazione della vita.

5 ottobre 2006

Una definizione d'amore

L rimarrà a Helsinki con me per qualche settimana. E ora che è qui, il baricentro della mia vita non giace più a metà tra il lavoro e la lettura, ma ogni mia attenzione gravita intorno a lei.
Con L la mia vita acquista un senso, un significato che da solo non saprei darle; la mia esistenza raggiunge con lei una pienezza abbacinante. Non cambio come uomo, non divento migliore, né (spero) peggiore, i problemi che assillano questa valle di lacrime non scompaiono, il mondo non diventa rosa, né Theo van Gogh risorge, ma la mia anima raggiunge la sazietà come dopo un ricco banchetto.
Insieme possiamo affrontare qualsiasi indigenza, qualsiasi sacrificio.