26 novembre 2009

L'arte di saper ascoltare - 2

Non rimpiango niente della mia vita a Roma. Non nel senso sociale e politico che l'Italia sia un medioevo oscurantista clerico-fascista berlusconiano, mentre la Finlandia l'evo moderno il progresso la civiltá ecc. Penso invece di vivere al di lá del limes, nella barbarie di un mondo ancora acerbo e troppo giovane, un mondo che non ha ancora trovato un equilibrio in senso storico e che é necessariamente incivile (e con "incivile" intendo la mancanza di affinamento astrattivo che invece é propria della civiltá urbana europea; per dirla con termini della scolastica: in Finlandia gli "universalia" sono soltanto probabilmente "ante rem" e sicuramente "in re" e non giá anche "post rem" come nella civiltá europea, nella sintesi proposta da Alberto Magno e san Tommaso; per dirla in parole povere la Finlandia é "parla come magni", anzi, "parla come bevi" e le sono estranee le fantasie rappresentative, le seghe mentali e gli spiriti contemplativi come il mio).
La mia mancanza di rimpianti di cui sopra é tutta personale. E non é il tema di questo post. Ma pe sbajo c'entra perché é l'oggetto di uno dei pochi rimpianti romani che ho, cioé le mie conversazioni cor Pinta.
Un lettore pignolo mi chiederebbe: ma come, titoli "l'arte del saper ascoltare" e poi vuoi parlarci di conversazioni? E non avrebbe torto, almeno filologicamente, a ravvisare la contraddizione. Basterebbe peró conoscere er Pinta per non trovare alcuna contraddizione.

La notte romana puó essere molto generosa, nonostante l'umiditá e le zanzare, nonostante il chiasso volgare degli open bar e le scimmie dei casting, nonostante le parabole, le city car e le suonerie dei cellulari, nonostante gli abbrutiti dal cocco, i perennemente incazzati di sinistra, le fatalone stivalate, le checche sguaiate e gli stundentelli che pensano basti una birretta per fare Bohème; la notte romana offre sempre un buen retiro per quegli spiriti inquieti che non sanno stare a casa a guardare il GF, che evitano il carnaio yankee di Trastevere e il pendolare scopereccio tra Campo de' fiori e piazza Navona; la notte romana ha sempre in serbo un angolo dimenticato dove le gattare lasciano il piatto, dove la luce della luna cola sul tronco smozzicato di una colonna che poggia la sua ombra su un vecchio muro spanciato, un cantuccio buio dove chi passa si accende una paja per farsi coraggio, dove gira una miccia o scatta una pisciata, dove trova la veloce intimitá di un bacio una coppia che non durerá fino all'alba.
Er Pinta e io avevamo trovato uno di questi posti: una scalinata consumata vicino ad un baretto irlandese dalle parti di san Pietro in vincoli, un'enclave di tranquillitá in mezzo alla caciara. D'estate, col culo sui gradini, una pinta e una miccia, e poi ancora una pinta e una miccia, e un pacchetto morbido di Diana rosse: consumavamo la notte in chiacchiere (d'inverno vagavamo senza bussola, decisi a non arrenderci all'italica noia).
Er Pinta mi faceva confidente delle sue pene d'amore; oppure proponeva spunti dalle cronache politiche, ma si finiva sempre a mandarci reciprocamente affanculo (lui e io antipodali per quanto riguarda politica e religione), ma mai con rancore; altre volte si cazzeggiava senza un argomento preciso. In quest'ultimo caso er Pinta dava il meglio di sé come oratore e io, incidentalmente, il meglio di me come ascoltatore: er Pinta riusciva a tener banco (e a tenermi sveglio) per ore, non chiedendo in cambio niente, se non da parte mia qualche intercalare di circostanza (tipo: ammazza, ma dai!, teribbile). Er Pinta parlava a marea e tra onde e risacca il suo vocione ipnotico e un po' rauco mi cullava e io, a mo' di ciuccio, fumavo una sigaretta dopo l'altra, godendomele intensamente respiro per respiro (e chi fuma o ha fumato sa cosa voglio dire). Er Pinta ogni volta mi raccontava di amici in comune, di conoscenti e parenti suoi, ma non erano pettegolezzi: era la vita spiegata a puntate.

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