C'è
stato un tempo in cui il mondo non era connesso e non era contratto
nella globalizzazione, un tempo in cui le distanze fisiche
erano un limite reale al circolare degli uomini e delle idee. Eppure quel tempo appartiene anche alla storia
recente, alla storia del secolo scorso.
La rivoluzione russa non è stata un big bang che in una frazione di sospiro ha investito l’impero dello car’, da Petrograd alla Kamčatka,
non si è propagata alla velocità della luce dal mar baltico al mare di
Bering, ma venne diffusa, venne (mi si perdoni il termine evangelico)
annunciata, secondo le possibilità di allora. L'armata
rossa durò fatica a imporre il verbo di Lenin e la dittatura del
proletariato e impiegò alcuni anni e innumerabili vite a sconfiggere
l'armata bianca.
Immaginiamo ora la
sterminata desolazione della Siberia, immaginiamone le zone
periferiche, in cui i villaggi, a causa
dell'arido deserto o del gelo perenne, sono rarissimi e vivono solo
isolati cacciatori: le notizie sono portate a piedi o a dorso di cavallo o di cammello, le comunicazioni sono alla mercè delle piogge,
della neve, del disgelo. Eppure anche agli abitanti più sperduti giunge la novella rossa e tutti sanno che lo car’ è stato rovesciato e che vengono istituiti i soviet.
Uomini sporchi e stanchi, dal
grilletto facile, percorsero a cavallo tutta la Siberia, predicando la rivoluzione di villaggio in villaggio in
bande sanguinarie, requisendo
vodka e bestiame, seducendo contadinotte e macellando nobili, possidenti
e borghesi (come racconta Ferdinand Ossendowski nel suo Bestie, uomini e dei).
Eppure ci dev'essere stato un limite
fisico o un confine mentale al loro pervagare, al loro annunciare. Ci
dev'essere stato un punto oltre il quale questi araldi del
marxismo-lenisimo decisero che non valesse più la pena di proseguire e
diffondere.
Ebbene, uno di quei punti esiste e si chiama Inja.
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