Casa dei genitori di L.
Ultima
breve notte. Sveglia alle cinque. La valigia é pronta. Corpo e spirito pacificati dopo una robusta sauna.
Per
qualche oscura ragione le tende non erano chiuse del tutto e penetrava
liberamente una lama di luce. Non so se fosse artificiale o naturale:
era di un bianco latteo, mistico; come un’amorevole benedizione che
provenisse da altezze irraggiungibili; come una lievissima carezza che
però contenesse forza e sicurezza non umane.
La
luce si adagiava in punta di pennello sul viso di L. dormiente,
trasfigurandolo, come la luce spirituale delle icone, ma come la mano
ispirata del divino Rublëv non saprebbe mai fare: un sottile alone
spirava dalla guancia, dal sorriso, dalla palpebra di L., al ritmo
regolare del suo respiro, e vaporava per tutta la stanza.
Nell’attesa
del sonno meditavo confusamente sulle promesse di matrimonio
pronunciate frettolosamente di fronte al prete di Hki. Quattro lucchetti
a protezione del tesoro che mi dormiva tra le braccia. E la Luce ne era
la chiave.
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